Da lunghissimi anni lavoro in carcere, ma non sono mai riuscito ad abituarmi a considerare normale l’idea che ci siano persone recluse dietro sbarre di ferro. Personalmente faccio fatica anche ad andare allo zoo o al circo, figuriamoci quando si tratta di esseri umani. Mi piace credere in un percorso evolutivo delle società umane che, seppure con poche accelerazione e molti rallentamenti (e qualche regresso), tenda nel lungo periodo a un progressivo ampliamento dei diritti e delle libertà. Il carcere non è sempre esistito e non è detto che prima poi non si troveranno altri modi per punire, com’è giusto e necessario che sia, chi commette reati.
La mia non è pura utopia, se è vero che in Svezia si registra da qualche anno un calo nel numero dei detenuti che ha portato alla chiusura di diversi istituti. È chiaro che l’attuazione di un simile avanzamento nel campo della civiltà è legata a politiche di armonizzazione dei sistemi europei più progrediti. Dove la percentuale di condannati che espiano la pena in misure alternative alla detenzione è molto superiore a quella che c’è in Italia. Da noi, al contrario, moltissimi sono in carcere in attesa di giudizio (cioè quando ancora vale la presunzione di non colpevolezza), per poi magari uscire non appena la condanna diventa definitiva. Bizzarrie di una giustizia impazzita e massacrata da una legislazione sovrabbondante e contraddittoria.
In questo contesto, con cui siamo costretti a fare i conti, c’è grande bisogno di certezza della pena. Che non è, come piacerebbe a molti digiuni di diritto, chiudere in cella e “gettare la chiave”. Al contrario, vuole dire concreta attuazione e applicazione della normativa vigente in maniera il più possibile rigorosa, proporzionata e equa. A partire dal principio costituzionale sulla funzione rieducativa della pena per giungere alle varie leggi e riforme che prevedono, attraverso tutta una serie di trattamenti extra-murari, un graduale reinserimento sociale del condannato.
Non ha senso continuare ad accalcare detenuti nelle prigioni sovraffollate. Si pregiudica il lavoro di tutti gli operatori: educatori, agenti, strutture sanitarie. Come suggeriva un nostro studente qualche anno fa, il carcere è ridotto come una lavatrice che tira fuori panni più sporchi di quelli che ci mettiamo dentro. Il meccanismo è rotto e nessuno interviene a sostituire o riparare i guasti. Non è raro il caso di chi entra in galera per un fatto abbastanza irrilevante e ne esce trasformato, incattivito e provetto allievo di quella che chiamano “l’università del crimine”.
Non può andare diversamente in un ambiente in cui si vive stipati in cella, in condizioni igieniche spesso raccapriccianti, con poche ore d’aria in ambienti ristretti e opprimenti, dove le prepotenze e le aggressioni sono all’ordine del giorno, i diritti spesso calpestati. Chi esce da una situazione simile per essere catapultato, da un giorno all’altro, in una società in crisi come la nostra, dove non c’è lavoro per nessuno, figuriamoci per chi ha l’etichetta del pregiudicato, cosa può fare se non tornare a delinquere?
L’aspirazione alla pacifica convivenza di una normale comunità esterna (e onesta) è in netto contrasto con l’altissimo tasso di recidiva della popolazione detenuta. C’è un unico modo per dar senso alla reclusione e giustificare le ingenti spese che noi tutti sosteniamo per l’inceppata macchina della giustizia: fornire a queste persone delle opportunità che li mettano in grado di rivedere il proprio vissuto e cambiare rotta. In questo è fondamentale il lavoro, grazie al quale da un lato potrebbero impiegare il proprio tempo in maniera diversa dall’avvilimento in branda e lo struscio di ciabatte in corridoi a parlare di rapine; da un altro, con i loro guadagni potrebbero contribuire in misura determinante al proprio sostentamento, garantendoci ampi risparmi. E poi c’è la scuola, l’istruzione, la cultura nelle sue varie espressioni, unico viatico per un reale cambio di prospettive, quindi di vita. E fare in modo che almeno qualcuno di quei panni esca pulito dalla lavatrice.