Barbara ha fatto una carriera strepitosa. Ha studiato, ha lottato, ha dato tutto. E in barba alle statistiche è arrivata in alto. Molto in alto. Dove i tacchi a spillo si contano su poche dita. Dove, se ci arrivi, poi finisci sul giornale. Come una stella cometa per tutte le altre che ci provano, come un faro di luce che fa un po’ male per tutte quelle che non ci riescono. Perché c’è sempre qualcuno lì pronto a scattare quando tu ti fermi, ti perdi a fare figli…qualcuno che non ha “il problema”, che non allatta, che non si sveglia di notte.

Barbara ha passato anni in cui scendendo dal letto prendeva una testata nel muro perché non sapeva più dov’era, in che albergo, in che città, in che paese.

Poi sono arrivati i bambini. E vai con baby sitter, per il giorno, per la notte, tabelle di marcia che nemmeno un capo di Stato sarebbe in grado rispettare.

Colloqui per scegliere la persona giusta, sempre che non ti molli dopo poco perché il bambino piange. Poi asili nido da passare al setaccio. E già che ci siamo, che gli parlino in inglese, in cinese. Che facciano laboratori di ikebana e danza afro cubana, almeno così i piccoli non si annoiano. E i nonni, inossidabili, sempre in allerta perché per i più grandi c’è la piscina, la palestra, il corso di scacchi.

Ma un giorno si trovano insieme, come per miracolo: Barbara, il marito e i figli. Un pomeriggio piovoso, al centro commerciale. All’ingresso c’è una famiglia, tutti seduti insieme: un garrire di bambinetti scalcinati e sorridenti. Che a vederli vicini i figli di Barbara sembra che vengano da un altro universo: inamidati, pettinati, profumati. Roba che costa un occhio della testa.

Ludovica, la figlia più piccola di Barbara, osserva quei bambini come lei, diversi da lei. Poi stringe la mano della mamma e le chiede: “Perché stanno lì?”.

“Perché sono poveri, tesoro”. “Mamma, non possiamo essere poveri anche noi, così stiamo sempre insieme?”.

il Fatto Quotidiano del Lunedì, 25 Novembre 2013

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