“Qualcuno doveva sapere che maneggiando ordigni all’uranio impoverito, senza particolari protezioni, ci si poteva ammalare”. Lo scrive nero su bianco una sentenza di primo grado del Tribunale amministrativo della Lombardia, in riferimento al caso di un militare impiegato in una missione in Kosovo dal 3 dicembre 2002 al 7 aprile 2003. Ora l’uomo è un carabiniere scelto in servizio alla Legione carabinieri “Lombardia”: ha vinto un concorso dell’Arma dopo essere rientrato dai Balcani, dove, maneggiando ordigni all’uranio impoverito, si è ammalato di tumore alla tiroide. Più precisamente, nel 2008, gli viene diagnosticato un “carcinoma papillifero del lobo tiroideo”.
È partita così una richiesta di “equo indennizzo” ai danni del ministero della Difesa che però tenta di negare, adducendo come motivo il semplice ritardo nella presentazione della domanda. Ma il Tar di Milano, nel febbraio di quest’anno, ha dato ragione al militare. Recentemente, con un sollecito, è stata richiesta l’esecuzione della sentenza e la liquidazione di quanto dovuto (quasi 350mila euro). Il ministero ricorrerà al Consiglio di Stato, ma quello che i giudici scrivono nel primo grado di giudizio mette un tassello decisivo nella lunga battaglia che tanti militari, vittime delle esposizioni all’uranio impoverito, hanno condotto contro chi sapeva dei possibili danni alla salute, ma non ha potuto o voluto agire.
Si legge nella sentenza del febbraio scorso: “Si ricava inequivocabilmente la piena responsabilità dell’amministrazione intimata per la gravissima patologia, derivante da causa di servizio […] danni causati per avere impiegato il militare in una missione nel Kosovo durata più di quattro mesi, senza l’adozione di alcuna protezione specifica”. Le date sono importanti. Nel 2002 doveva essere noto il fatto che maneggiare uranio impoverito, non opportunamente protetti, poteva rappresentare un forte rischio. Eppure gli operatori come il carabiniere scelto non avevano in dotazione “nessuna specifica protezione”. “Pur nella consapevolezza – proseguono i giudici del Tar di Milano – della sussistenza di concreti fattori di rischio, derivanti dalle sostanze altamente tossiche (uranio impoverito) contenute negli ordigni e nei proiettili inesplosi rinvenuti e sequestrati che venivano fatti brillare dai militari, come si ricava anche dall’articolo 4 bis, comma 1, del decreto legge numero 393 del 2000, introdotto dalla legge di conversione numero 27 del 2001”. Il Tar, per comprovare quanto scritto, cita un documento che precede i fatti di due anni. “È disposta la realizzazione di una campagna di monitoraggio sulle condizioni sanitarie dei cittadini italiani – si legge nel testo – che a qualunque titolo hanno operato od operano nei territori della Bosnia- Herzegovina […] e del Kosovo, e dei familiari che con loro convivono o hanno convissuto”.
Come conferma al ilfattoquotidiano.it il giovane carabiniere oggi malato di tumore alla tiroide, non gli fu fornita alcuna protezione particolare nel momento in cui, aggregandosi nel 2002 alla missione Nato ‘Joint guardian’ – quella che partì nel 1999 e durò fino al 2004 con l’obiettivo di ostacolare l’avanzata delle truppe di Milosevic in Kosovo – gli fu assegnato il compito di autista in un plotone Eod (Explosive device disposal), ovvero i responsabili di bonifiche da bombe e mine inesplose. L’uomo, inoltre, racconta dei famigerati “fornelli”: enormi buche nel terreno in cui venivano raccolti decine e decine di ordigni e poi fatti brillare tutti assieme (vedi foto). Il fornello sollevava nuvole di polvere che poi ricadendo al suolo sversavano i loro veleni ovunque. E’ così che il carabiniere viene a contatto con l’uranio impoverito senza sapere esattamente quanto sia pericoloso. Una situazione pagata a caro prezzo della quale oggi vuole essere risarcito.