Emmanuel Carrère è uno scrittore di biografie: Jean-Claude Romand, il bugiardo compulsivo che assassina moglie figli e genitore, Philip Dick lo scrittore di fantascienza, e Eduard Limonov esule, poeta, carcerato e politico. Ma le biografie si intrecciano incessantemente con la vita dell’autore, creando, in un certo senso, una propria anti-biografia. Quasi che attraverso le vite degli altri si possa raccontare la propria, vista nelle sue zone di limite. Chi decide lo stato di eccezione? Questa era la domanda che si poneva Schmitt ragionando sul potere, e che poi ha definito la figura dell’homo sacer di Giorgio Agamben. Qual è quindi il nostro stato di eccezione, quale il confine fra normalità e follia? Cosa una vita altrui ci può dire sulle semplici cose della nostra vita: fare figli, andare a prenderli a scuola, scrivere un libro o intraprendere un viaggio. Perché la presenza altrui può essere così inquietante, e come si affronta la perturbazione personale con la scrittura? Nella sua opera, Carrère risponde con uno stile lucido a questi interrogativi. Spietatamente lucido, verrebbe da dire.
Molti scrittori in erba si chiedono come si sceglie un personaggio. Lei come sceglie un soggetto a cui valga la pena dedicare una biografia?
Non ho un solo modo. Ogni volta uso un metodo diverso. Per quello che riguarda Romand, quando avevo letto i primi articoli sul fatto, la sua storia mi aveva appassionato, come penso avesse appassionato molta gente. Da qui è cominciato un processo molto lungo e molto complicato. Per Limonov è diverso. Avevo scritto un reportage lunghissimo su di lui, e avevo l’impressione che ci fosse ancora molto altro da scrivere. C’era un melange che mi pareva eccitante fra romanzo di avventura e libro di storia. Ma in fondo, in nessuno dei due casi ho mai pensato in termini di biografia. L’ho fatto una volta quando avevo scritto il libro su Philip Dick. Ero in un periodo in cui non riuscivo più a scrivere e mi ricordo che il mio agente mi aveva detto che quando un autore ha il blocco, deve scrivere una biografia.
Spesso sulla scia della fiction televisiva uno scrittore poco esperto tende a creare personaggi o buoni o cattivi. Lei invece sceglie spesso personaggi ambigui. Mettono radicalmente in discussione la nostra normalità…
Potrei indicare che in un certo modo scrivere questo tipo di libri è come cercare di immaginare altre virtualità di se stessi. È come se cercassi di volta in volta le persone più lontane da me, dicendo: non è su questo piano che conduco la mia vita, e di comprendere cosa vuol dire vivere così. Allo stesso tempo ci vuole qualcosa che faccia eco, che crei un rapporto intimo, un momento in cui ci sia, malgrado tutto, un po’ di affinità. Quando l’affinità si crea con persone come Romand, un assassino, è molto scomoda, imbarazzante. Psichicamente pericolosa.
Il personaggio risulta essere un punto interrogativo, mette in crisi chi legge e probabilmente anche chi scrive.
Sì, non è confortante per l’autore scrivere così e neppure per il lettore. Ma allo stesso tempo è un’esperienza eccitante e perfino piacevole.
All’interno delle biografie inserisce cenni alla sua vita. È straordinario l’esergo dell’Avversario, quando racconta i normali avvenimenti di una sua giornata, mentre in contemporanea Romand ammazzava moglie e figli.
L’Avversario era un libro che non riuscivo a scrivere. Ci fu un momento in cui lo abbandonai. Ma pensai che sarebbe stato bene farmi una sorta di piccolo promemoria, per ricordarmi cosa era stato scriverlo. Quindi mi presi due o tre giorni per buttare giù gli appunti e poi chiudere il dossier per sempre. Ed è così che ho iniziato a scrivere in prima persona, cosa che non avevo mai preso in considerazione. E quindi è stato veramente un caso che sia nato questo meccanismo narrativo, che consiste nel mescolarmi a ciò che racconto. Dopo l’Avversario ho continuato così, perché mi è diventato naturale. Ho l’impressione che sia più onesto dire alle persone chi gli parla, chi gli racconta la storia.
Come consiglierebbe di usare la propria figura di autore, all’interno di una biografia altrui?
Quello che racconto di me è sempre vero. Certo ci sono approssimazioni, a volte intreccio due dettagli per andare più spedito, ma non invento nulla. D’altra parte non invento neppure quello che riguarda i personaggi su cui scrivo. Quando non so qualcosa cerco di dirlo. Quando l’immaginazione prende un po’ il sopravvento sulla realtà, cerco di fare in modo che il lettore lo sappia. In generale, mi piace che il lettore sappia com’è fatto il libro, che si ritrovi un po’ nella cucina dove vengono preparate le pietanze.
A proposito della cucina, i suoi libri sembrano montati come film… si possono imparare molti trucchi su come portare avanti una storia
Sono d’accordo. Allo stesso tempo devo dire che io non ho l’impressione di avere una scrittura cinematografica per un motivo: che non ho una scrittura visuale. Ci sono pochissime descrizioni. Di contro c’è un’organizzazione, un montaggio, che si avvicina molto al cinema. Mi piace organizzare un libro come un film. Penso che i miei libri siano costruiti nel modo più semplice, ossia con una costruzione cronologica. Magari non è sempre la cronologia della storia in sé. Può essere la cronologia del mio rapporto con la storia, di come ho accesso alla storia e generalmente mescolo la cronologia della storia e la cronologia di me che la scopro. È proprio questo tipo di organizzazione, di montaggio, che mi piace fare.
L’impressione è quella del racconto in presa diretta…
Infatti, trovo sempre la storia strada facendo. Non potrei immaginare di fare prima tutte le ricerche e poi di scrivere il libro. Anche i miei giudizi sui protagonisti cambiano strada facendo, e non cerco di unificarli, o di sintetizzarli, perché penso che il mio giudizio sia la totalità di questi giudizi.
Lei ha raccontato personaggi controversi. C’è ovviamente un rischio personale, sia psicologico che derivante dalla recezione. Lo prende in considerazione? É giusto o limitante per chi si accinge a scrivere farci un pensiero?
Il rischio che rappresentavano le due imprese, L’avversario e Limonov, non era della stessa natura. Per L’avversario ho avuto davvero l’impressione che ci fosse un rischio personale, direi psichico. Vivere per diversi anni con questa cosa, direi nella periferia del campo visivo, è qualcosa che trovo pericoloso psicologicamente e di cui ho risentito. Per Limonov questo pericolo era molto minore. Lui era un amico e all’inizio si prendeva gioco di me. No, comunque, non era un rischio. Al limite rischiavo di farmi trattare non proprio da fascista, ma da qualcuno che aveva una fascinazione sospetta per il fascismo. E io dicevo, okay, la pensi come vuole. Non bisogna sottovalutare il fascino del fascismo, altrimenti non si capirebbe nulla della storia.
Gli errori che uno scrittore non deve mai commettere
Pensare di dover scrivere un libro: “Quando inizio a scrivere, è come se ci fosse qualcosa che scricchiola, che fa attrito, che non è naturale. Allora devo persuadermi che non sto scrivendo un libro. Sono appunti, mi dico. Quando ho già un certo numero di pagine, posso ammetterlo: è un libro. Altrimenti sento troppo la tensione. Bisogna cercare di ingannarsi”.
Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 2 dicembre 2014
(Foto Lapresse)