Nell'inchiesta sui nove fusti corrosi contenente materiale radioattivo nell'impianto in provincia di Piacenza, scrive il quotidiano Libertà, il gip Giuseppe Bersani ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dal pm Antonio Colonna per Sabrina Romani
“Maggiori controlli avrebbero evitato il rischio di contaminazione per personale e addetti”. Lo ha stabilito il giudice per le indagini preliminari Giuseppe Bersani, il quale ha ordinato l’imputazione coatta di Sabrina Romani, direttrice dell’impianto nucleare di Caorso (Piacenza), così come scrive il quotidiano Libertà. Sono nove i fusti nel mirino, contenenti materiale radioattivo che erano stoccati nell’impianto in via di decommissioning, cioè di dismissione. In totale sono 8mila e 800 i fusti contenenti materiale radioattivo tutt’ora custoditi. Hanno capienza da 220 decimetri cubi stoccati nei diversi depositi temporanei presenti nell’impianto caorsano.
Le accuse, per la direttrice, sono di violazione dell’articolo del decreto legislativo del ’95, che regola la disciplina su questi particolari rifiuti pericolosi, che recita: “Chiunque esercita un’attività soggetta al presente decreto deve adottare le misure necessarie affinché la gestione dei rifiuti radioattivi avvenga nel rispetto delle specifiche norme di buona tecnica e delle eventuali prescrizioni tecniche contenute nei provvedimenti autorizzativi, al fine di evitare rischi di esposizione alle persone del pubblico” (art. 102 della legge 230/95).
Ora Romani dovrà comparire davanti al gip, Gianandrea Bussi, che sarà chiamato a stabilire se il processo per lei dovrà continuare. In sostanza, non è grazie al lavoro di controllo del direttore di Arturo (come viene denominata la centrale) a evitare il rischio di contaminazione ma l’intervento degli ispettori dell’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, grazie ai quali vennero scoperti i nove fusti corrosi (nell’ottobre 2012). Il pubblico ministero Antonio Colonna aveva chiesto l’archiviazione del caso, ma dopo l’udienza di approfondimento, che ha fatto seguito alla decisione del gip Bersani di respingere la prima richiesta di archiviazione del pm, la procedura a carico della direttrice è continuata nonostante la difesa, rappresentata dall’avvocato Paolo Fiori, avesse voluto precisare come la correttezza di comportamento della sua assistita non avesse portato a nessuna contaminazione.
L’aspetto più interessante sulla questione, comunque, emerge dalla relazione degli ispettori dell’Ispra, redatta nell’ottobre del 2012: “Si è verificata la presenza di numerosi fusti con evidenti processi di corrosione in atto. In particolare su nove fusti, si sono riscontrati fenomeni di corrosione passante con perdita di contenimento” si legge. Prendendo in esame queste considerazioni, quindi, il giudice ha valutato che occorresse procedere con controlli più approfonditi e frequenti dei fusti stoccati. In particolare per la pericolosità del materiale contenuto. Le verifiche, da quanto si apprende, avrebbero “consentito di verificare lo stato di conservazione dei fusti e mettere in atto le attività necessarie per evitare l’avanzamento del processo di corrosione e la perdita di materiale radioattivo”. In questo modo, sempre secondo il giudice “si sarebbe evitato che i rifiuti radioattivi esponessero a rischio il personale che lavora all’interno dell’impianto e la popolazione residente. Rischio che si è concretamente verificato e non è arrivato a conseguenze successive solo in seguito dell’intervento dell’Ispra”.
Il sostituto procuratore Antonio Colonna ha nuovamente rimarcato che non c’era stato pericolo di perdite e che “lo spostamento complessivo dei fusti avrebbe causato problemi e pericoli maggiori”. Su questo aspetto, il difensore Paolo Fiori si era accodato, sottolineando come “le contestazioni non troverebbero applicazione per i dipendenti dell’impianto che sarebbero esposti ad un rischio di contaminazione fisiologico”. Tutto rinviato, per ora, ma con il giudice che ha ritenuto che la cattiva conservazione dei fusti contenenti materiale radioattivo a Caorso poteva rendere possibile la fuoriuscita di materiale radioattivo “potrebbe integrare un rischio di esposizione quanto meno della popolazione del Paese in provincia di Piacenza, che tra l’altro è proprio adiacente al fiume Po, il corso d’acqua più importante d’Italia con tutte le conseguenze del caso.