Ho letto Il comunista di Guido Morselli per Mosaico, supplemento della rivista brasiliana Comunità italiana, dopo lo scivolone elettorale di Bersani, e ho trovato in questo romanzo molti elementi negativi che caratterizzano l’esperienza della sinistra e la nostra classe politica in genere. Morselli usa addirittura il termine casta e traccia un ritratto problematico e pessimista della vita parlamentare negli anni Cinquanta che resta validissimo tuttora.
Il protagonista de Il comunista, Walter Ferranini, viene dal reggiano, l’Ucraina italiana a quei tempi, il granaio del paese, ed è un esponente del Pci che si dedica a un tema tuttora molto attuale, la sicurezza sul lavoro: “Tipico ciò che si verifica nei cantieri edili, dove l’unica legge in vigore, come è stato detto, è la legge di gravità”. Un deputato solitario che ha un’amante (“I suoi affetti, tranne forse uno, non erano che una nebulosa di abitudini”) e si trova dunque in una posizione difficile per un partito che sarà pure stato laico ma brillava anche per bigottismo. (Com’è noto quando Togliatti fu ferito da Pallante venne composta una canzone che raccontava la moglie al capezzale ma il Migliore ma stava già con la Jotti).
Il comunista si svolge in una Roma malinconica, fatta di pensioni e trattorie, discussioni politiche sui massimi sistemi marxisti e beghe di partito, con puntate in Emilia-Romagna e Piemonte (per un processo politico a un compagno fuoriuscito dall’ortodossia), ma anche negli Stati Uniti sepolti dalla neve. Un punto della narrazione che segna il deflagrare del dramma antiborghese di Ferranini, lo snodo narrativo cruciale, è la sua teoria del lavoro e la possibilità che gli viene data da Moravia di esprimerla pubblicamente. Ferranini considera il lavoro come una versione antropizzata della eterna lotta per sopravvivere (se fosse stato precario o sfruttato come oggi a maggior ragione), non come un valore in sé e per sé, non come il piedistallo su cui appoggiare lo statuto del partito o il primo articolo della Costituzione. Si tratta di una visione esistenzialista – il romanzo è stato scritto negli anni ’60 e Sartre viene citato –, secondo la quale l’uomo è destinato a soccombere malgrado le progressive sorti dell’umanità e il trionfo del comunismo, vicino o lontano che sia, nella struggle for life che precede la morte: “Il lavoro con la sua operosità è dunque una condizione universale e insopprimibile. Senza riscatto”. E poi: “Ora il problema vero è qui: l’onerosità del lavoro, il suo carattere di pena, per cui esso è sentito come una condanna, quando avrà fine?” E ancora: “Perché la schiavitù del lavoro rimane (senza sfruttamento da parte di nostri simili, è vero), in quanto necessità fisica. E col lavoro rimane la sofferenza che è il lavoro nel suo aspetto soggettivo. La biologia ci conferma che alla lotta per la vita, che è lotta contro la realtà ambientale, non ci si può sottrarre e nessuno si sottrae”.
Una tesi che il protagonista del romanzo espone in un articolo sulla rivista diretta da Moravia – personaggio che compare col suo vero nome nel libro mentre altri sono meno riconoscibili – e gli costa la scomunica. Per Morselli, che del resto non lavorò mai o quasi, grazie alla rendita che il padre gli aveva messo a disposizione, questa lotta per la vita e contro l’ambiente ostile si potrebbe identificare nella lotta per pubblicare. Liberato dalla schiavitù del lavoro d’ufficio si cercò un altro campo di battaglia. Nello specifico Il comunista, come altri romanzi, fu sul punto di uscire con Rizzoli. Poi si verificò un cambio ai vertici della casa editrice e il funzionario che gli aveva fatto il contratto venne fatto fuori. Insieme a lui venne accantonato il titolo di Morselli che pure aveva ottenuto un contratto. La Rizzoli gli propose di uscire con una casa editrice minore che aveva acquisito a quel tempo ma a quanto pare Morselli rifiutò. Il funzionario che gli aveva fatto il contratto si chiamava Giorgio Cesarano, si ritirò in Toscana col figlio e poi – per motivi che non hanno attinenza con la vicenda professionale come editor rizzoliano – si tolse la vita nel ’75. Cioè un anno prima dell’uscita postuma de Il comunista con Adelphi e due dopo il suicidio di Morselli. Lo stesso Cesarano era stato espulso dal Pci, e non fatichiamo a credere – al netto delle grandi doti letterarie di Morselli – che gli piacesse il romanzo.
Incastrato in una esistenza insoddisfacente, deluso dal partito e dal paese, Walter Ferranini decide di lasciare Roma e – forse – il Parlamento per tornare dalla moglie negli Stati Uniti. Si è sposato emigrando nel Dopoguerra, ma poi è tornato per non lasciarsi andare a una vita da middle class nel regno del capitalismo che pure gli piace per certi aspetti. Per esempio tornando negli Stati Uniti Ferrarini, uomo sensibile e intelligente ma tagliato con l’accetta, nota che lì i grandi alberi vengono rispettati e lasciati invecchiare non abbattuti come in Italia. Qui emerge l’altro grande tema morselliano dell’ecologia che allora apparteneva alla destra – la destra poi lo abbandonò con rimpianto alla sinistra – sviluppato in Dissipatio H. G. In un articolo Morselli spiega che il diritto all’ambiente, alla tutela del verde e del paesaggio – mi viene in mente – è democratico e popolare e non reazionario ed elitario come si pensava allora. Almeno a sinistra e fino al ’68.
Ma la fuga nel passato fallisce: “La gente che viaggia si illude di evadere o di darsi da fare, sempre si illude. Il loro viaggiare è supremamente inutile, come il culmine della cosa inutile che è la loro vita”. Tornato in Italia ripiomba nella triste routine di ruota dell’ingranaggio. Rientra nella “tribù dei notabili che rappresentava a Roma il proletariato”. Certo allora il proletariato, nel senso marxiano del termine, esisteva davvero, ma fatte le dovute proporzioni non è cambiato nulla, oggi c’è il precariato. Ferranini veniva dalla realtà dei braccianti dell’Emilia-Romagna e come parlamentare sicuramente era un notabile eppure non godeva di tutti quei privilegi che caratterizzano attualmente i politici. Nondimeno chiama quella dei parlamentari comunisti “una casta”. Termine che sarebbe diventato di moda solo molto più tardi. E questo senza sconfinare nella retorica della sobrietà: “Infine conosceva gli errori di Balnqui e non si sentiva di ripeterli. Non è detto che si debba abitare nei tuguri per aiutare il popolo a liberarsene”.
Calvino lesse con interesse il manoscritto de Il comunista e ne apprezzò alcuni pregi ma rifiutò la pubblicazione sostenendo che le parti dove si raccontava il partito erano fasulle, lui quell’ambiente, scrisse a Morselli, lo conosceva ed era diverso. Certo è difficile pensare che un autore come Morselli, un solitario che conduceva dall’eremo di Gavirate una battaglia editoriale destinata allo scacco esistenziale, la battaglia per esistere i quanto individuo singolo e pensante, in quanto scrittore, potesse uscire con un romanzo sul comunismo in una casa editrice di sinistra come Einaudi, considerata un punto di riferimento per il Pci. Ferranini sentiva l’inutilità di lottare: “Ferranini tornò alla Camera, sempre più odorosa di trementina, sempre più verbosa, borghese e superflua”. E ancora: “In Italia la gente vive di chiacchiere, si consuma in chiacchiere. Tutto finisce in chiacchiere, che razza di un paese”.
Infine la beffa della fortuna editoriale postuma, seguita al suicidio, avvenuta in una notte d’agosto, dopo il ritorno dalla montagna e la scoperta nella posta del manoscritto di Dissipatio H. G., rifiutato e restituito dalla Mondadori.
Un’ultima considerazione: Wikipedia, nella biografia di Morselli, ha inserito un commento su Il comunista del tutto infondato: sostiene che lo scrittore non riuscì mai a pubblicare e fu boicottato dall’ambiente editoriale perché in particolare in questo romanzo traccia positivamente la figura di un partigiano e allora la Democrazia cristiana demonizzava i partigiani. Una vera bestialità: se Morselli pagò uno scotto ideologico-letterario fu tutt’al più- come dimostra Il comunista e il commento di Calvino – di segno politico opposto.