Con l’ultima classifica dell’indice di percezione di corruzione (Corruption Perception Index, Cpi) di Transparency International, l’Italia ritorna al 69° posto, come nel 2011, accompagnata da Kuwait e Romania. Un miglioramento di sole tre posizioni dall’anno scorso. L’indice, come ben evidenziato dal nome, non misura il livello di corruzione effettivo, bensì quanto corrotto sia il nostro Paese secondo una comunità di esperti, composta da investitori, accademici e consulenti.
La corruzione, in quanto fenomeno sommerso, è quasi impossibile da osservare direttamente. Tuttavia, analizzare come la sua percezione sia mutata nel corso degli anni fornisce preziosi spunti di riflessione sul come e perché l’Italia sia uno degli stati europei maggiormente afflitti da questa piaga.
Tra il 2007 e il 2008 l’Italia è scesa più di dieci posizioni, stabilendosi in un’area al di sotto del 60° posto. E’ difficile spiegare il balzo senza un’apposita analisi, ma è possibile ipotizzare una serie di fattori. In primis abbiamo una crisi politica. Il 24 gennaio 2008 il secondo governo Prodi viene sfiduciato dal Senato, che lo fa cadere. A dare il via agli eventi furono le dimissioni dell’allora ministro della giustizia Clemente Mastella. Mastella era indagato nell’inchiesta ‘Why Not?’ per abuso di ufficio, e per essere coinvolto in una fitta rete di imprenditori, giudici e politici impegnati ad ottenere fette di finanziamento dallo stato e dall’Unione europea. Con il Ministro della Giustizia sotto gli occhi dei procuratori (e la moglie agli arresti domiciliari) era inevitabile che agli esperti l’Italia apparisse più corrotta che negli anni precedenti. Molto probabilmente, la rielezione di Silvio Berlusconi, ben noto all’estero per i suoi conflitti di interesse, non ha fatto che contribuire a stabilizzare la nostra posizione tra le più basse d’Europa.
Collegata alla crisi politica è la crescente consapevolezza della presenza di corruzione nella gestione e assegnazione degli appalti pubblici. Molto spesso gli appalti tendono ad essere influenzati dagli interessi personali dei funzionari che se ne occupano e dai legami tra mafia e politica. A giugno di quest’anno un rapporto prodotto da PricewaterhouseCoopers per l’Ufficio anti-frodi dell’Unione Europea ha finalmente messo a nudo il problema. Lo studio stima che un contratto pubblico su dieci è afflitto da una forma di corruzione. Questo numero è tre volte maggiore di quanto emerso in Francia, e dieci volte più che nei Paesi Bassi. I settori più a rischio sono quelli della manutenzione di acquedotti, e la costruzione di strade e reti ferroviare. Non a caso, questi sono anche settori ad alto rischio di infiltrazione mafiosa.
L’indice di Transparency International è un ottimo strumento per ottenere un’idea generale del problema corruzione in Italia. Non è, tuttavia, una misura su cui appoggiarsi per vedere la performance delle politiche anticorruzione recentemente messe in atto. Due i motivi. Per prima cosa, il Cpi dipende troppo dalle aspettative degli esperti, che non necessariamente combaciano con la realtà dei fatti. Il caso Mastella ne è un esempio: una rete di corrotti esisteva presumibilmente già prima del 2007, ma solo dopo l’indagine ‘Why Not’ il valore dell’indice è diminuito sostanzialmente. Una migliore misura dovrebbe concentrarsi non solo sui casi di corruzione venuti a galla, ma anche sul rischio, cioè sulla probabilità che ci siano le condizioni giuste affinché un atto corruttivo avvenga. Inoltre, il Cpi è calcolato solo a livello nazionale. Per valutare i Piani Anticorruzione c’è bisogno di una misura scalabile, ossia applicabile anche a livello regionale e locale.
Per arginare l’emergenza corruzione non bastano strategie governative, ma serve una vera e propria mutazione culturale, che riguardi l’idea di cosa sia accettabile e non accettabile nelle pubbliche istituzioni. C’è bisogno di un’opinione pubblica più attenta alla condotta di chi ci governa. La chiave per metter fine alla corruzione sta, insomma, anche nella testa degli italiani.
di Stefano Gurciullo