Mentre in Italia le telecomunicazioni sono prevalentemente un tema di dibattito quando non di scontro e, tra i pochi fatti, il Golden Power su Telecom Italia giace in un cassetto in attesa di un regolamento attuativo che deve ancora essere approvato dal Parlamento, l’Europa si muove. Con Francia e Germania che procedono spedite verso il consolidamento del settore funzionale allo sviluppo di una rete in fibra europea.
La francese Orange, ex France Télécom di cui il governo di Francois Hollande detiene il 27% del capitale e la tedesca Deutsche Telekom, il 14,5% della quale è in mano alla Repubblica federale (con un 33% che fa capo a soci tedeschi), stanno infatti valutando l’opportunità di unirsi. Con tanto di supporto delle rispettive “casse depositi e prestiti”. Un matrimonio che avrebbe il merito di mettere assieme due ex-monopolisti alle prese con l’esigenza di investire in fibra per ammodernare i rispettivi Paesi mantenendo sotto controllo il debito. Secondo un leit motiv dell’Unione, però, le nozze sarebbero troppo spostate verso Berlino. Cosa che naturalmente non piace a Parigi che vorrebbe controbilanciare in qualche modo il peso teutonico.
La vicenda non è sfuggita alla Cassa Depositi e Prestiti in prima linea con gli investimenti nella rete via Metroweb, ma neanche al governo di Enrico Letta. Anche perché il premier ha deciso recentemente di affidare uno studio sullo stato della rete italiana e sulle sue necessità di investimento ad un comitato ristretto composto, oltre che dal numero uno dell’Agenda digitale, Francesco Caio, anche da un francese e un tedesco: Gerard Pogorel, professore di economia e management della Scuola Nazionale Superiore di telecomunicazioni di Parigi e Scott Marcus, consulente della Federal Communication Commission, il regolatore americano, che da anni affianca aziende e istituzioni europee sui temi delle nuove reti.
Nonostante l’avversione dell’Unione al Golden Power, monitorato da vicino da Bruxelles, la normativa sui “poteri speciali dello Stato sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale”, in uno scenario di fusioni di grandi ex monopolisti, appare quindi particolarmente rilevante per l’Italia perché, a differenza di quanto hanno fatto Francia e Germania, lo Stato italiano non ha più neanche un’azione di Telecom Italia, la cui privatizzazione fu decisa da Romano Prodi nel lontano 1997.
In più la disastrata situazione finanziaria del gruppo italiano gravato da 29 miliardi di debiti (di cui la rete in rame è garante) e l’instabilità dell’azionariato con gli spagnoli di Telefonica in ascesa, non favorisce facili soluzioni per il futuro della fibra del nostro Paese. Tanto più che la decisione dell’Agcom sui prezzi dell’unbundling in Italia, lo strategico ultimo miglio, non pare, secondo Bruxelles, favorire gli investimenti in fibra. Un tema delicato per l’autority guidata da Angelo Cardani che si lamenta del “pessimo affare” fatto diventando presidente dell’Agcom e intascando “appena 300mila euro anni lordi di stipendio per ben sette anni” con la clausola di non concorrenza per altri quattro anni.
Lo scenario italiano ed europeo è insomma decisamente complesso. Soprattutto per quel che riguarda il futuro della rete in rame di Telecom che, secondo il viceministro allo Sviluppo economico, Antonio Catricalà, resta uno dei punti all’attenzione del governo Letta. “Lo scorporo societario e non proprietario – ha spiegato Catricalà – può garantire la sicurezza degli investimenti e un socio forte come Cassa Depositi e Prestiti può assicurare la crescita. Telecom è ancora un’azienda di grandi capacità industriali e commerciali. Gli impegni presi saranno rispettati, si tratta di capire se da sola sarà in grado di fare per il Paese quello di cui il Paese ha bisogno. Se non è in grado dobbiamo darle l’aiuto necessario che si può dare solo con lo scorporo della rete, visto che non si possono dare aiuti di Stato”. All’Agcom però il commissario Antonio Preto ha messo in allerta sui rischi della mancata separazione societaria della rete rifacendosi al caso britannico: “La Bbc ha realizzato un’inchiesta su Openreach (British Telecom, ndr) da cui sono emerse in modo drammatico le inefficienze della società separata, che hanno obbligato il regolatore Ofcom a intervenire perché dopo sette anni i consumatori non erano soddisfatti – spiega Preto – Non vorrei che anche noi poi scoprissimo che c’è una cattiva qualità dei servizi”.
Insomma l’attenzione delle istituzioni sul caso Telecom è massima, ma Catricalà ha tenuto a precisare di non ritenere necessaria l’apertura di un tavolo di crisi con i sindacati che si inquietano per le sorti di oltre 53mila dipendenti del gruppo. Difficile, del resto, immaginare, in questa fase, quale sarà il futuro del gruppo guidato da Marco Patuano. Qualche indizio tuttavia potrebbe già arrivare dal consiglio di amministrazione di giovedì 5 dicembre in cui, sulla base delle richieste di chiarimenti della Consob, dovrebbe emergere il nome del terzo socio, oltre al fondo americano Blackrock e alla spagnola Telefonica, che ha aderito al prestito convertendo lampo da 1,3 miliardi deciso di recente dal management della società per far fronte alle necessità di cassa vista la difficoltà di accesso al credito. Sullo sfondo le tensioni con azionisti ed ex amministratori in vista dell’assemblea di fine mese.