Mary covava la stessa disperazione dei sensi, una così efferata ripugnanza della vita meschina e ordinaria, tale da renderla del tutto simile a un personaggio letterario oppure a un’eroina ottocentesca. Pensavo a lei come all’Andreina di Moravia de Le ambizioni sbagliate. A guardarla dal ballatoio di un condominio popolare, io e Romina eravamo certe che fosse nata per lasciare agli altri il tedio e la moralità, che in lei piuttosto rifulgiva l’ebbrezza di un disordine morale tanto da assoggettarla a un suo disinibito Olimpo; per noi Mary era la peggiore delle donne eppure anche la migliore, e meritava la nostra invidia. Scendeva le rampe del falanstero di quella periferia lurida e abietta cospargendo gli altri, la medesima aria che respiravamo noi o i negletti delle case di Mazzarruna, più neri più sporchi come chiosava Romina con disprezzo, di una nuova levità.
Mary era perduta però e lo sapevamo. Soltanto che lei il tipo con la roba lo aspettava in Audi, con uno spezzato di lana chiara, il cerchietto serrato sui capelli sottili, un’eleganza inopportuna tutto sommato. Preparava la sua dose con mani eleganti, crollava nel suo sonno mortale con la medesima grazia con cui scendeva le rampe, saliva in auto, apriva la porta di una boutique di abiti di buona sartoria.
Di Mary si raccontavano storie terribili, era tanto giovane e nello stesso tempo tanto compromessa. Aveva un amante, un uomo sposato e facoltoso, il più classico dei cliché, ma era vero. Le dava la cocaina e gli abiti di ottima fattura che indossava di solito, le dava i soldi, la manteneva. E per questo io e Romina invidiavamo la sua amoralità, la sua disinibita incoscienza, il suo modo a parte di sopravvivere, la sua lenta irrevocabile condanna del resto, ogni dettaglio che attenesse al resto, l’ordinarietà e le sue stesse aspirazioni borghesi. Romina diceva che la madre era uguale, che erano donne pericolose, che gli uomini poi impazzivano, che era meglio evitarle.
Mary abitava di fronte casa di Romina. La madre teneva i capelli raccolti sulla nuca, e a noi sembrava una megera, vestiva di scuro, Romina diceva che aveva fatto la vita, che Mary era perduta per colpa sua. Mary aveva la stessa disperata acrimonia verso il resto, ecco tutto, era come Andreina de Le ambizioni sbagliate, pallida e fremente al centro del suo modico vellutato canapè, la immaginavo così, in un vestito scuro e sbracciato, proprio come Andreina di Moravia, vinta dalla sua ingovernabile solitudine, la più avida, la più oscena. E gli uomini nelle sua mani erano stracci, erano ridicoli. Mary la immaginavo così, senza cappello, lo indossava spesso, per nascondere i pochi capelli che cadevano a causa dell’eroina; la immaginavo in sottoveste su un lungofiume, come Andreina. Lei voleva ammazzarsi, Mary, non lo faceva mai.
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