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Tap, il gasdotto piace all’Italia. Ma non porterà capitali né garantisce lavoro

“Opera strategica” per il governo, ma la società che la costruirà è in Svizzera e ha solo soci esteri. Al Paese resta l'impatto ambientale e nessuna garanzia sul lavoro

L’Italia dà l’ufficiale via libera al gasdotto Tap. La Svizzera ringrazia. Con lei, anche una sostanziosa fetta dell’economia del nord Europa. In patria, rimane più di qualche frattura, nel territorio pugliese, il vero vaso di coccio tra i due vasi di ferro, la politica del governo e gli appetiti delle multinazionali. Giovedì 5, la Camera ha definitivamente approvato la ratifica dell’accordo tra Albania, Grecia e Italia sul progetto ”Trans Adriatic Pipeline”, fatto ad Atene il 13 febbraio scorso.

Il provvedimento ha incassato 284 sì, a fronte di 42 no e 9 astensioni. È il passaporto con il quale, il 17 dicembre prossimo, il premier Enrico Letta si presenterà a Baku, in Azerbaijan, per imprimere l’ultimo sigillo all’iter che dovrà portare alla costruzione del metanodotto lungo quasi 900 chilometri e che, dal confine con la Turchia e attraversando la Grecia, l’Albania e il mare Adriatico, sbarcherà “nei pressi di Lecce”. Oggi, il luogo dell’approdo continua ad essere identificato con San Foca, marina di Melendugno, bandiera blu e località turistica di punta, dove di un gasdotto non si vuol sentire neppure parlare. 

“Opera strategica”, Tap. È ripetuto come un mantra dai rappresentanti del governo e dalle forze politiche che hanno appoggiato la ratifica dell’accordo, tutte ad esclusione dell’inedito duo Sel- Lega Nord e del M5S che, però, ha abbandonato l’aula prima del voto. “Opera strategica”, si diceva. Ma per chi? E per cosa? La certezza, al momento, è una sola: con l’affare del gas, con la realizzazione di questa mega infrastruttura da 24 miliardi di dollari americani e con la gestione che ne verrà dell’oro azzurro, l’Italia avrà poco a che fare. Anzi, ciò che si paventa è la solita fuga di capitali all’estero.

La joint venture Trans Adriatic Pipeline AG ha sede in Svizzera, a Baar, nel cantone di Zug, da sempre il “paese di Bengodi”, dove le società anonime, come questa, superano di dodici volte il numero degli abitanti, grazie alla tassazione di vantaggio e non solo. Certo, dall’inizio di quest’anno la Confederazione Elvetica non è più inserita nella black list dei paradisi fiscali stilata dall’Ocse, ma la strada verso la trasparenza è tutta in salita. Rimane, dunque, il nodo fiscale. L’articolo 9 del Trattato ne fa cenno: “per la determinazione della base imponibile dell’Investitore del progetto verranno applicate le disposizioni nazionali pertinenti in base ai principi dell’Ocse”.

Tradotto, significa che i redditi possono essere tassati solo dallo Stato di residenza, in questo caso la Svizzera. Vi saranno, è garantito, accordi preliminari sui prezzi, della durata minima di 25 anni, “giuridicamente vincolanti, stipulati tra le autorità fiscali di ciascuna delle Parti tra di loro e con l’autorità fiscale elvetica, in coerenza con le clausole dei trattati sull’eliminazione della doppia imposizione”. E su questo l’Italia è, sostanzialmente, ferma al palo della Convenzione del 1976.

Tutto ancora da capire, quindi, quanto sarà (risicato) l’osso che verrà mollato d’oltralpe. L’Italia ha abdicato al suo ruolo anche nell’assetto societario. Oggi, l’azionariato di Tap è composto dall’inglese Bp (20%), dall’azerbaigiana Socar (20%), dalla norvegese Statoil (20%), dalla francese Total (10%), dalla belga Fluxys (16%), dalla svizzera Axpo (5%), dalla tedesca E.ON (9%). Alcuni di questi soci fanno parte, a loro volta, del consorzio Shah Deniz, proprietario dei giacimenti del Mar Caspio. Le nostrane Enel ed Hera entrano in ballo solo perché si sono assicurate una quota di quell’oro blu che transiterà tramite Tap. E questo, secondo il viceministro degli Affari esteri, Marta Dassù, come detto al Senato il 17 ottobre, basterebbe a confermare “l’importanza del progetto per l’Italia”, perché “per noi questo è rilevante come hub strategico”.

Ci trasformeremo, cioè, nel deposito di metano, che potrebbe servire all’Europa. A noi no, visto che il fabbisogno interno è già ampiamente soddisfatto, essendosi assottigliato in poco tempo da 85 miliardi di metri cubi agli attuali 71 miliardi l’anno. Ma tant’è. Saremo la bombola di gas in mano ad altri. Eppure, “ciò significa un’Italia pienamente integrata nel mercato unico (e quindi prezzi livellati a livello europeo, il che comporta per il nostro Paese la riduzione del prezzo del gas) e inoltre un’Italia che diventa un Paese di transito e di esportazione di energia e non solo più di importazione”, ha assicurato, entusiasticamente, il sottosegretario per lo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti.

L’esterofilia ci premierà. Ma i nodi restano intricati e si affiancano a quelle verità date per buone, a prescindere. “Gli studi disponibili ci danno un rilevante impatto sul versante delle spese di investimento nella fase di costruzione del progetto, con effetti significativi in termini di posti di lavoro – parliamo di almeno 340 occupati nella sola provincia di Lecce – comprensivi anche degli effetti sull’indotto su tutto il territorio pugliese, con oltre 2.000 posti di lavoro”, ha affermato ancora De Vincenti.

Peccato che quelle stime, tra l’altro calcolate in maniera imprecisata, siano di parte, fornite dalla stessa multinazionale, prese per oro colato, per quanto nello stesso documento Esia si parli chiaramente di “aspettative disattese in termini di occupazione di forza lavoro locale”. Capitolo ancora più spinoso è quello relativo allo studio di impatto ambientale, “frutto del dialogo e del raccordo con le istituzioni e le comunità locali”, come detto da Paolo Romani, Pdl, relatore al Senato nella seduta del 17 ottobre.

Di quella concertazione, sul territorio, non c’è traccia. Anzi. Sulla scelta dell’approdo è stato avviato solo a fine novembre il processo partecipativo dal basso, che ha già partorito l’ennesimo, secco, no, ricalcando le stesse considerazioni contenute nel controrapporto, redatto da giuristi, tecnici, chimici, medici, ricercatori, per conto del Comune di Melendugno e presentato in Commissione Affari esteri della Camera. Non c’è stato il tempo di attendere la conclusione della fase di via da parte del ministero dell’Ambiente, ma, almeno sulla scelta dell’attracco, la porta resta socchiusa. Su tutto il resto, la devozione a Tap è andata avanti ad occhi chiusi.