Come vestirsi a Venezia? Secondo Peggy Guggenheim, in una città così incantevole non ci si dovrebbe esimere dall’indossare abiti altrettanto favolosi. Lecito dunque presumere che anche ritrovi, stili di vita, svago e business debbano perseguire standard analoghi. Ma sembrano oggi malinconicamente remoti i bei tempi in cui la celebre ereditiera sbarcava in Laguna recando in dote non solo denaro ma anche un consistente bagaglio di cultura, buon gusto, inventiva e, soprattutto, appassionata e rigorosa conoscenza dell’arte.
Passano gli anni, mutano le epoche e i nuovi mecenati della città dei dogi hanno assunto, com’è noto, le sembianze delle grandi multinazionali del lusso, che sul binomio moda-cultura hanno imperniato una strategia comunicativa ormai collaudatissima e planetaria. Dunque una massiccia dose di investimenti privati, soprattutto stranieri, che, malgrado i fini di lucro, in molti casi rappresentano la classica provvidenziale boccata di ossigeno per uno sterminato patrimonio artistico che la disastrosa noncuranza delle nostre amministrazioni locali e soprattutto nazionali lascia spudoratamente degradare in un cumulo di ruderi, aspettando che alle sorti di Piazza San Marco e dintorni provvedano –magari senza troppi controlli– i magnati delle griffes.
Sono trascorsi ormai circa sei mesi da quando Louis Vuitton si è insediata, con il suo sontuoso flagship store a tre piani, nell’epicentro dello shopping veneziano più esclusivo, ovvero in Calle XXII marzo. Oltre al finanziamento di alcuni restauri, la maison si è proposta di ospitare, tra le mura dell’Espace Culturel situato all’ultimo piano della boutique, incontri ed attività culturali, come l’evento di qualche giorno fa, cioè la presentazione della “City Guide” di Venezia commissionata da Vuitton a due autori francesi, Philippe e Oscar Duboÿ, padre e figlio, rispettivamente architetto e giornalista, da tempo trapiantati in loco. Packaging e veste editoriale deliziosamente accattivanti, sui toni del fuxia e del marrone, un florilegio di indirizzi di tutto rispetto che, bilanciando accuratamente le voci mainstream con quelle meno note e di nicchia, delineano una mappatura utile e non scontata della città. Peccato che, soffermandomi a sfogliare il volumetto, alcuni stralci della parte introduttiva su usi e costumi degli abitanti mi facciano saltare sulla sedia.
A pag. 40 si legge che “il veneziano medio è un piccolo-borghese. In inverno, la moglie stravede per la pelliccia, mentre il marito si divide tra il loden, il barbour o l’husky”. Ma guarda un po’! Quattro tipologie di capi che a Parigi e dintorni nessuno indossa! “La veneziana chic –prosegue il nostro illuminato arbiter elegantiarum– ha un debole per l’oro lucido, come rivela la collana a maglie piatte che indossa”. Ma dove, quando? Ma chi frequentate?!? “Si resta in disparte e non ci si fa notare, senza però dimenticare mai di sfoggiare un marchio”. Oddio, devo essermi persa qualcosa: Vuitton non è forse un brand il cui monogramma è replicato ed esibito in ogni dove? E gli autori dell’omonima guida vengono ad ammannirci lezioni di minimalismo no-logo? Proseguo stoica nella lettura: “Il veneziano è vestito male? Fatevene una ragione. […] Essenzialmente compiaciuto di sé, il veneziano a volte può perfino rivelarsi un tantino cafone“.
Tralascio per brevità di riportare altre citazioni, che comunque prospettano il tipico abitante di Venezia (e talvolta anche l’italiano in generale) come una sorta di bifolco crapulone ed avvinazzato, indolente e a tratti perfino un po’ autistico: “Quando il veneziano deve davvero ringraziare il foresto usa ‘thank you’ (leggi tenkiu), con un accento che si taglia con il coltello, fatta eccezione per i commercianti che di recente si sono risolti a imparare le lingue straniere, purché servano per vendere…Altrimenti, il veneziano in realtà non parla un granché”. Anche qui, cari autori, a parte il vostro superfluo e patetico suggerimento sulla pronuncia anglofona, a parte la vostra crassa ed imbarazzante ignoranza circa la storia della Serenissima e l’esistenza di una vera e propria lingua veneziana (mai vista a teatro in vita vostra una commedia goldoniana?), chi frequentate?!? Chiudo il libro incredula: al di là dell’intrinseca inutilità di certe generalizzazioni, i numerosi francesi che conosco esprimono quasi sempre ben altro apprezzamento nei confronti di Venezia e del nostro paese, o comunque, anche in caso di lamentele o legittime critiche, sanno opportunamente preferire il fioretto alla clava. Per quanto il mio personale livello di patriottismo/campanilismo si attesti (soprattutto di questi tempi) più o meno in prossimità dello zero, certe offese gratuite, per giunta provenienti da pulpiti più che traballanti, hanno il potere di irritarmi non poco.
Il giorno della presentazione del libro arrivo al mega-store Vuitton dove –curioso contrappasso– era situata fino a qualche anno fa l’unica grande libreria della città, chiusa e non più riaperta a causa di un affitto divenuto ormai proibitivo. C’è una ressa sorprendente ed eterogenea: qualche volto noto, pochi clienti abituali e moltissimi curiosi. Peccato che, in stridente contrasto con i geometrismi e i richiami onirici di una collezione oggettivamente pregevole, il livello di bon ton della situazione lasci piuttosto a desiderare. In un angolo dell’ampia sala va in scena il gustoso siparietto di una giornalista che si avvicina sorridente all’addetta-stampa di Vuitton presentandosi e tendendole la mano, per poi chiederle il permesso di rivolgerle qualche breve domanda. La simpatica ragazza la guarda infastidita lasciando penzolare la mano dell’interlocutrice senza stringerla, mormora sbrigativa un “magari dopo, ora no” e le volta subito le spalle mettendosi a conversare garrula con un suo amico. Viene distribuito un certo numero di copie gratuite della suddetta city-guide (abitualmente venduta al prezzo di 30 euro), ma qualcuno capisce male e pensa di potersi portare a casa qualunque libro gli aggradi tra tutti quelli esposti: risolini e gomitate quando al microfono viene chiarito l’equivoco. Durante il tragitto verso casa, per una strana associazione di idee mi torna in mente l’aneddoto raccontatomi qualche mese fa da un amico parigino, riguardo ad un giovane e ruspante Alain Delon che, giunto nella villa di Luchino Visconti in procinto di partire con il suo set di valigie griffate Louis Vuitton, aveva ingenuamente creduto che il conte se le fosse fatte creare su misura con le proprie iniziali impresse. Ripenso dunque a Visconti e alla signorilità estrema con cui in alcune circostanze –come racconta chi l’ha conosciuto– si metteva per primo a parlare in dialetto milanese per dissipare l’imbarazzo o la soggezione delle persone meno istruite che incontrava. Costui era l’italianissimo conte Visconti di Modrone, gigante della cultura e del cinema di tutti i tempi.
A tutti gli altri, evidentemente, non basta avere in comune le lettere del monogramma LV per riuscire ad essere “popular” conservando quella virtù impalpabile e rarissima che si chiama classe.