Prima o poi dovevamo incontrarci di nuovo. Io e la Fortitudo. Un caro collega mi regala una copia di Un saluto ai ragazzi – Racconti Fortitudo (Pendragon) e mi dischiude davanti agli occhi pagine di mirabili racconti brevi per illustrare grazie a tre diverse firme e stili (Cristiano Governa, Emilio Marrese, Filippo Venturi) la “diversità sociale e spirituale dell’altra Bologna” che, loro dicono, “nel tempo ha visto i suoi contorni sbiadirsi un po’ qua e là”.
Eccoli, allora. A volte ritornano. Ai fortitudini può davvero succedere di tutto: retrocessioni, sconfitte, radiazioni, perfino un’invasione di cavallette, ma imperturbabili se ne stanno ancora ritti e attenti, a cantare a petto nudo nella Fossa. La Fortitudo c’è, anzi l’essere Fortitudo non muore mai, nonostante tutto. Lo spiega Governa nel racconto “Qui non ci sono eroi”, architrave di questo florilegio della passione mai perduta, di questa minima moralia biancoblu: “la follia è tutto quello che mi è rimasto. E quello che ti rimane è ciò che sei. A me sono rimaste due cose, il mio mestiere e la Fortitudo”.
La Fortitudo, insomma, non te la togli mai di torno. E lo dice un bianconero, coniglio virtussino, in iperventilazione poco prima del tiro da tre di Danilovic nella finale scudetto del 1998, quando Dominique Wilkins – 26.668 punti in Nba – sfiora il polso del serbo virtussino: canestro più fallo, parità, l’altro Nba della F David Rivers che si palleggia sulla coscia, supplementari e la Virtus dilaga.
La storia, quella storia del tiro da tre più fallo, mica “odio il brodo”, “il grande freddo” del meno 41, o boiate simili. Quella roba lì, una mazzata che diventa tatuaggio incancellabile, avrebbe steso una mandria di tori. Invece nulla. Ancora in piedi, ancora a sberciare improperi a mezzo metro dalle orecchie dei giocatori che trotterellano in serie D (i milordini Virtus lo fanno anche loro, ma con l’orologio sul polsino). Una forza, un’energia inesauribile che non tramonta mai. Un orgoglio inutilmente prevaricatore, come quella volta che circa 30 fortitudini attorniarono me e altri due virtussini per sottrarci le sciarpe. No dico: le sciarpe.
Erano in una trentina contro tre, forse il lunedì avevano il cartellino da timbrare in magazzino, ad ogni modo riuscirono a rubare una sciarpetta sola, perché la lasciammo andare lanciandola e subito corremmo via divincolandoci tra le decine di braccia (dice Piero Pelù: “meglio aver paura che buscarle”). Poi da lontano vedemmo che la bruciavano felici, urlando in coro. Ecco l’essere Fortitudo oltre al “subire in eterno” è questa bizzarra necessità di sentirsi parte di una comunità geneticamente predestinata alla sfiga, che in fondo al cuore ama subire, gode nella rimonta che si infrange all’ultimo secondo sul ferro. Questione di classi socio-economiche, marxianamente parlando.
Lo sanno gli alter ego di Governa, Marrese e Venturi sempre imbrigliati in qualche cosa di più importante, socialmente utile, sentimentalmente allettante della partita della F. Eppure loro rifiutano l’incombenza, lasciano perdere l’ordinarietà e tornano sempre lì a riempire il palazzo, rito collettivo che nemmeno gli indiani Sioux o gli aborigeni australiani.
Un derby infinito, quindi, filosoficamente eterno che solo a Bologna poteva esistere e permanere anche quando si sta a digiuno per anni. Bologna double face, quella dei fighetti e quella di strampalati popolani, quelli del pub in periferia e quelli del ristorantino in centro, magicamente insieme quando si tratta di guardare impietosamente una città che si squaglia per mano amica – gli studenti invasori – e si spappola per volere nemico – il 2 agosto 1980. Straordinario in questo caso il racconto di Governa quel 2 agosto ’80: l’uomo che non c’era: lì in mezzo alle macerie della tragedia, ritrova un anelito di vita e speranza colorato di bianco e nero, così si ferma a osservarlo e ad ammirarlo. In fondo meglio tenersela stretta insieme questa città, altrimenti dove lo andiamo a giocare il prossimo derby quando la Fortitudo risalirà in serie A?