È stato il giorno della testimonianza al processo per il naufragio del capitano di fregata il cui audio con l'ordine di salire a bordo al comandante della nave da crociera, che era "finito" su una scialuppa, ha fatto il giro del mondo. L'ex comandante: "Fu una telefonata tristemente famosa, inutile e provocatoria. De Falco perse l’autocontrollo"
Ogni tragedia ha i suoi protagonisti. E quelli della notte del 13 gennaio 2012 quando una nave da crociera si inclinò dopo l’impatto con uno scoglio sono due, entrambi marinai. Sono Gregorio De Falco e Francesco Schettino, l’eroe e l’imputato; quello che stava dalla parte giusta e quello che faceva le cose sbagliate, o semplicemente non agiva, mentre al Giglio era in corso il naufragio della Costa Concordia con 4.229 persone a bordo e 32 morti alla fine. Schettino, durante il processo, fissa De Falco dalla sua postazione di accusato (oltre cinque ore di testimonianza per il capitano di fregata), alza e abbassa lo sguardo, tormenta un foglio scritto, sorride amaro con i suoi avvocati, poi dopo nove ore di udienza prende la parola per una dichiarazione spontanea per stroncare la telefonata del ‘Vada a bordo cazzo.!’.
E De Falco, che – in uniforme e accompagnato a Grosseto dalla moglie – ricostruisce i soccorsi da Livorno coi pm, e poi sopporta gli ‘assalti’ della difesa (che gli rimprovera di aver indicato una posizione sbagliata per la biscaggina da cui Schettino sarebbe dovuto risalire a bordo). De Falco guarda sempre dritto in faccia chi gli parla – pm, avvocati, giudici – ma non, per forza di cose e di ruoli, lo stesso Schettino.
L’udienza più lunga del processo di Grosseto ha quindi messo di fronte i due simboli opposti della tragedia consegnati all’immaginario collettivo mondiale – non era mai successo prima – e ha incardinato come prove in un’aula di tribunale le telefonate di esortazione fatte da De Falco, dalla sala operativa di Livorno, al comandante della nave per avere informazioni e coordinare i soccorsi.
“Vada a bordo, cazzo!”, è la chiosa più celebre di quelle conversazioni – e più volte la telefonata è stata proposta (e sezionata frase per frase), per scopi divergenti, da accusa e difesa. Schettino andrà oltre a fine giornata: “Fu una telefonata tristemente famosa, inutile e provocatoria. De Falco perse l’autocontrollo”. È la prima volta che la commenta. In realtà De Falco sbottò al termine di una escalation di tentativi per sapere da 75 miglia di distanza che cosa succedeva a bordo direttamente dal comandante della nave: “È lui l’ anello centrale per coordinare i soccorsi, dovevamo parlare con lui, non con altri”.
Tentativi che impattarono contro risposte vaghe e non esatte. Successe più volte, tre in conversazioni dirette De Falco-Schettino. Così, si riscopre nel processo, il De Falco che chiedeva quanti bambini, quante donne e quanti altri crocieristi erano in difficoltà, e Schettino che gli rispondeva, già su una lancia diretto verso riva, “una decina” mentre invece ancora centinaia di passeggeri dovevano ancora essere evacuati. “Ma io conosco l’abbandono della nave, non l’evacuazione dei passeggeri”, ha spigolato De Falco che ricorda che dalla Concordia “non hanno mai chiesto soccorso, siamo stati noi a contattarli dopo che i carabinieri di Prato ci telefonarono per avvisarci che una parente di una crocierista aveva dato l’allarme, parlando di nave al buio e di giubbotti di salvagente indossati”. “Avevano parlato di un semplice black out, poi negarono che vi fossero feriti e che avessero bisogno di assistenza, poi ammisero che c’era una via d’acqua”.
La prima ammissione di una falla verso le 22.20, alle 22.38 il segnale di distress, più di un’ora dopo l’abbandono della nave: “Mentre ci davano rassicurazioni sulla situazione, avevamo da terra notizie di circostanze non coerenti con quanto dichiaravano dalla nave”, ha testimoniato De Falco, “e questo ci fece pensare che la situazione era più grave perciò preallertammo motovedette, rimorchiatori e elicotteri”. Così, “esortai Schettino a risalire sulla nave ma non ci sono riuscito, speravo che ci fosse un suo ravvedimento”, ha anche detto De Falco, aggiungendo: “Mi spiace per quella cattiva parola”. Ma “come mai aggrediva il comandante Schettino in questo modo? Perché lo incalzava così? Lo ha trovato corretto?”, ha domandato il difensore di Schettino, Patrizio Le Piane a De Falco. “Sì – ha risposto il comandante della capitaneria di porto di Livorno -, era corretto incalzarlo perché c’era da soccorrere tantissime persone a bordo della Costa Concordia, delle quali non riuscivo in nessun modo a stimare il numero”. “Schettino non mi dava le informazioni necessarie perciò insistevo perché risalisse a bordo”, ha detto De Falco nella sua deposizione. Un’udienza frastagliata come i fondali del Giglio. Ad un certo punto, da un colloquio via radio con Livorno, dove già si era compreso la gravità della situazione, Schettino dice a uno degli uomini di De Falco, che gli chiedeva chi rimanesse a bordo: “Rimango io sulla nave”. Non sarà così, come noto. E sempre De Falco ha detto: “Non ho ancora compreso perchè Schettino scese dalla nave”.