Ecco un compendio di luoghi comuni sull’università e la ricerca che ritroviamo piuttosto spesso sulla stampa e che sono stati usati per implementare le recenti riforme dell’università:
- “In Italia abbiamo 100 università, una per provincia. Sono troppe? Dipende … Il problema è che tutte e 100 le nostre università offrono, oltre ai corsi di triennio, corsi di biennio e di dottorato” (F. Giavazzi, 2010),
- “Che nell’università ci siano troppi professori è un fatto” (F. Giavazzi 2010),
- “Non possiamo più permetterci un’università quasi gratuita” (F. Giavazzi 2010)
- “Siamo sicuri che questo paese davvero abbia bisogno di più laureati?” (F. Giavazzi 2012)
- “La spesa italiana per studente equivalente a tempo pieno diventa 16.027 dollari PPP, la più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia” (R. Perotti 2008)
- “L’università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale” (R. Perotti 2008)
- “Al CNR il 30% delle persone sono inattive, in 7 anni non hanno prodotto un saggio al di sopra dei livelli minimi standard della ricerca” (T. Boeri, 2013)
Se si esegue uno scrupoloso esercizio di fact-checking si trova che non c’è nulla di vero in queste affermazioni (vedi anche qui e qui). Si può certamente sostenere che il sistema universitario e della ricerca di questo paese abbia dei problemi, anche gravi, ma se non si parte da una diagnosi corretta difficilmente si adotterà una terapia capace di intervenire sui suoi problemi cruciali. E le ricette con cui è stata “curata” l’università suggerite dai suddetti esperti, tutti professori dell’Università Bocconi, sono state seguite dal Ministro Gelmini nel formulare la riforma del sistema universitario e poi, in perfetta continuità, sono state implementate con correttivi, anche peggiorativi, dai Ministri Profumo e Carrozza.
L’università, dopo questa cura versa in uno stato drammatico: bastava poco per capire che una riforma del genere, invece di essere un’occasione da non sprecare, avrebbe spezzato quel che di buono ancora sopravviveva nell’università, e per prevedere che quelli che ne avrebbero fatto le spese maggiori, grazie all’abolizione del ruolo di ricercatore permanente e con l’introduzione di sole borse di studio, sarebbero stati i giovani che, infatti al momento non hanno possibilità di ottenere neppure un posto temporaneo. Questa situazione alimenta un’insofferenza e una rabbia che si riversa contro il “sistema”, visto come in toto marcio e irrecuperabile.
Noi pensiamo invece che questa visione sia indotta da una campagna stampa di denigrazione alimentata con lo scopo di ottenere il consenso necessario a imporre la riforma Gelmini. Il sistema universitario, benché con zone di grande sofferenza, presenta ancora vaste aree di buona e talvolta ottima qualità che dovrebbero essere protette in quanto parte del “ben comune” da cui attingere capacità e risorse intellettuali per il rilancio del paese.
Invece all’Università Bocconi la pensano diversamente e ora hanno dedicato un convegno al tema “La ricerca in Italia – Cosa distruggere, come ricostruire”. Gli organizzatori si chiedono dunque: “è giusto tenere in vita dipartimenti e centri di ricerca in cui più del 30% delle persone non fanno ricerca al di sopra di standard minimi?”. Infatti un’altra delle leggende che continuano ad essere divulgate è che complessivamente i docenti inattivi siano proprio dell’ordine del 30%.
Recentemente è stata svolta dall’agenzia ministeriale di valutazione un’indagine sulla qualità della ricerca italiana. Tale indagine è stata è stata fortemente criticata dalla comunità scientifica per i metodi utilizzati. Molti degli apologeti di questa indagine si trovano proprio tra i partecipanti al convegno alla Bocconi. La cosa esilarante, che ai nostri maghi dei numeri è forse sfuggita, anche perché si auto-considerano eccellenti per definizione, è che da quell’indagine risulta che la ricerca della Bocconi è per il 33% di qualità limitata, e che due suoi dipartimenti sarebbero in prima fila tra i candidati alla chiusura dato che più del 35% dei loro ricercatori rientra tra quelli che non hanno presentato nemmeno un lavoro di qualità “accettabile”.
Visto che nel 2012 lo Stato italiano ha finanziato la Bocconi per quasi 15 milioni di euro, cui vanno aggiunti contributi regionali non noti ma di entità presumibilmente paragonabile (per esempio, secondo il Corriere nel 2009 il totale di contributi statali e regionali ammontava a 32 milioni) se si volesse adottare davvero la linea dura si potrebbe iniziare dal tagliare il finanziamento statale alla Bocconi: se non del tutto, almeno quello relativo ai dipartimenti dove più del 30% delle persone non fanno ricerca al di sopra di standard minimi. Sarebbe un grande esempio di coerenza meritocratica.