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Piergaetano Marchetti: “Ingiustizie crudeli, tassiamo i grandi patrimoni”

Il presidente della Fondazione Corriere, già membro del cda di Bpm e Generali, ha conosciuto bene il mondo dell'alta finanza. Oggi dice: “Il capitalismo di relazione è finito”. Poi racconta il rapporto con il potere: “L’ho visto da vicino, ma ho sempre cercato di tenere le distanze. Ai miei clienti non do del tu”

“L’Italia è fatta, ora facciamoci gli affari nostri” è il motto degli Uzeda, I viceré di Federico De Roberto. Il discorso sul potere viene in mente nell’ascensore che porta allo studio milanese di Piergaetano Marchetti. Il notaio che dell’alta finanza ha visto quasi tutto: presidente del patto di sindacato di Mediobanca, membro del cda di Bpm e Generali, vicepresidente di Saipem, diversi incarichi in Rcs, prima presidente del cda, oggi consigliere e presidente della Fondazione Corriere. Un curriculum lunghissimo, eppure non vuol saperne di essere chiamato “uomo di potere”. Preferisce la parola “arbitro”: ma anche le regole, il rigore e l’epitaffio kantiano (“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”) sono un potere.

Professore, perché detesta essere definito “un uomo di potere”?
Perché non lo sono. Il potere l’ho visto da vicino, ma ho sempre cercato di tenere le distanze. Di regola non do del tu ai miei clienti, anche se è una caratteristica del professionista rampante di oggi. Non lo trovo corretto.

Ha il complesso del primo della classe?
Sono cresciuto a pane e senso del dovere: questo conduce inevitabilmente a mettersi in luce, ma guai ad avere un’idea eccessiva di sé. Non ho molti amici, non sono di regola i miei clienti e in minoranza vengono dal mondo dell’Università. Ho incontrato un’umanità molto più ricca nei colleghi di mia moglie quando faceva la professoressa di scuola media o in persone cosiddette “qualsiasi”.

Cos’è il potere?
Me lo sono chiesto molte volte. Diffido di quelli che dicono “la ricchezza non è tutto”, nel senso che il potere è una conseguenza del denaro, su questo non c’è dubbio. Potere è poi capacità di tessere molte ragnatele, rapporti scanditi da continui do ut des, debiti e crediti da scambiare. Per essere in questa posizione, però, bisogna aver soddisfatto richieste, questue e raccomandazioni…

…di richieste di raccomandazioni ne avrà ricevute molte…
Una volta, all’Università, la richiesta di “comprensione” per superare l’esame era frequentissima. Il fenomeno è pressoché scomparso, nella mia esperienza. A trovare posti di lavoro sono incapace, anche se mi piange il cuore di fronte a tutte le persone che hanno bisogno. Ho fatto quello che ho potuto nella mia piccola bottega professionale. La mia segretaria Giovanna l’ho conosciuta ai tempi in cui rappresentavamo i genitori alle scuole elementari dei figli negli anni Settanta. Tornando al potere, ho frequentato molti manager. Ho dovuto imparare l’espressione “fare efficienza”.

Cosa vuol dire?
Soprattutto significa licenziare persone, considerate uno spreco. Troppo spesso oggi prevale un atteggiamento spietato e cinico: ci sono premi per i dirigenti in relazione ai risparmi di spesa ottenuti esclusivamente dai licenziamenti. Per me è terribile. Farò discorsi da vecchio socialismo, ma io penso che le riduzioni del personale devono essere davvero l’extrema ratio.

Nel caso di Rcs lo erano?
Non desidero parlare di Rcs.

Lei ha votato contro la vendita della sede di via Solferino.
L’ho sempre detto e rivendicato. Tutti i grandi brand sono legati a simboli. Il Corriere è legato a via Solferino: non si tratta di preservare feticci o spazi costosi e inutili, ma di tutelare un valore. La sede storica avrebbe potuto essere destinata oltre che a redazioni anche a un museo storico, a un centro dedicato al digitale, a una libreria, a una vetrina per l’Expo, a sede di attività di formazione e culturali con ritorni economici.

Che pensa della “fine della carta”?
Un luogo comune oramai, così formulato. Il bisogno di contenuti resta. Ma il grande tema è: si vuole continuare a fare, pur con mezzi nuovi, informazione, nel senso di diffusione di sapere, di notizie, di opinioni? Oppure si vuole utilizzare il digitale per vendere altri beni e servizi? Se prevale questa seconda anima, non si tratta più d’impresa editoriale.

Rifarebbe l’operazione Recoletos?
(Lunghissimo sospiro) Vista ex post potrei riprendere in considerazione l’acquisizione di Recoletos a prezzi inferiori. Allora avevamo le condizioni possibili per l’acquisto; i bilanci 2006-2007 parlano. L’idea – possedevamo anche Flammarion – era di costruire un’impresa editoriale multimediale e multinazionale. La Spagna era in crescita e voleva dire Usa e Sudamerica. Si pensava di arrivare a una presenza editoriale che in alcuni settori, come lo sport, potesse fare sistema con la parte italiana.

Non è andata così. I giornalisti del Corriere hanno fatto un’inchiesta sull’operazione Recoletos…
L’offerta fu accettata sulla base di pareri che ritenevano il prezzo d’acquisizione congruo. La crisi iniziata nel 2008 non era prevedibile. Ripeto: ex post tutto è facile. Come potevano sapere che la pubblicità sarebbe diminuita del 50 per cento?

Su questo giornale Claudio Magris ha parlato di un decadimento delle classi dirigenti italiane. Lei è d’accordo?
Ho molte remore a dichiarare un decadimento in toto. I padri degli illuministi dicevano dei loro figli: “Come siam caduti in basso con questi giovani che nemmeno portano più il parrucchino”. E i padri dei Romantici, i padri dei rivoluzionari… C’è spesso uno sguardo nostalgico sul passato. Detto questo, vedo un deciso decadimento sotto il profilo dello spessore culturale. Non solo in termini di quanti film visti o quanti libri letti. Ma c’è una progressiva scomparsa della conoscenza delle basi della cultura.

I classici – penso ai russi o ai francesi dell’Ottocento – sono considerati inutili, troppo impegnativi. E così si rinunzia alla comprensione della società, verso l’uomo che ci è prossimo. Per me la cartina di tornasole è il discorso sul merito. Condivido il principio meritocratico, se il premio al merito significa che non deve prevalere il demerito, o il rapporto relazionale, le raccomandazioni. Ma quando il discorso sul merito, come troppo spesso avviene, significa che il mondo è diviso in salvati e dannati, lo respingo. Un mondo che valorizza e riconosce solo i primi, negando qualunque prospettiva a chi sta dietro, non mi piace. E mi pare controproducente anche nella prospettiva di un capitalismo moderno. Vedo spesso nelle classi dirigenti, da una parte, il permanere di privilegi non meritati, dall’altra una concezione talebana del merito che esclude chiunque non è sul podio. Merito ed eguaglianza non possono essere disgiunti.

Altri difetti delle classi dirigenti?
Scarso spirito critico. Non esercitare una forte pressione per un rilancio dell’istruzione a tutti i livelli. Si preferisce la scuola privata, gli studi all’estero: utili, ma non sostitutivi di un forte sistema nazionale. Quanti si riconoscerebbero nel motto francese “libertà, eguaglianza, fraternità”?

Ha incontrato uomini di potere colti?
Sì a cominciare, da Cuccia. Ma non basta. La cultura deve sorreggere sensibilità e responsabilità sociale.

Per quanti anni ha insegnato alla Bocconi?
Cinquanta. Ho visto tutte le trasformazioni possibili. Oggi gli studenti sono più cittadini del mondo, più disinvolti nelle relazioni. A volte però peccano di presunzione; hanno la fortuna di frequentare un’università che funziona: le lezioni si tengono, le sessioni d’esame sono regolari e frequenti e dunque di solito ci si laurea in tempo. Ma questo può produrre nei laureati un senso di superiorità, senza considerare che spesso sono indottrinati da un esasperato spirito competitivo. Anche dopo, sul lavoro. Affermarsi va bene, ma spesso c’è un po’ di snobismo e l’idea di essere destinati a grandissime cose…

Lo scioglimento o la revisione dei patti di sindacato – Pirelli, Rcs, Generali – significa la fine di quello che veniva definito “capitalismo di relazione”?
Credo che significhi un desiderio di tenersi le mani libere. Non vi è più un orizzonte di stabilità e quindi quando manca la terra sotto i piedi, ciascun investitore – se non ritiene strategica la propria partecipazione – vuol riservarsi di poterla vendere quando vuole.

Quel mondo è finito?
Sì, credo di sì.

Perché in Italia praticamente non esiste l’editore puro? Gli interessi degli editori nella politica e nella finanza hanno condizionato la fisiologia democratica?
In Italia è andata così. Certo una classe politica che si aspettava tantissimo dalla sponda mediatica ha assecondato questo fenomeno. Un protagonista della vita politica è stato anche un editore, proprietario di giornali e tv: il potere è chiaramente passato attraverso i legami con i media. Io però non ho mai assistito personalmente a pesanti pressioni della proprietà del Corriere sulla redazione. Ho visto tentativi di condizionamento da parte degli investitori pubblicitari, specie nei periodici.

A Paolo Mieli l’endorsement per Prodi nel 2006 costò molto. Si ricordano malumori di due azionisti, Cesare Geronzi e Salvatore Ligresti.
Purtroppo bisogna dire che dopo quell’editoriale le vendite calarono fortemente. Eloquente segno della disabitudine di troppi lettori “moderati” a valutare tesi e opinioni diverse. Ancora una volta assenza di spirito critico, di scarsa laicità di pensiero.

Alla faccia del principio “i fatti separati dalle opinioni”.
Il Corriere ha avuto e ha spirito di forte autonomia, e non credo lo si possa accusare di sudditanza rispetto agli azionisti. Penso che abbia avuto un ruolo importante nel persuadere l’opinione pubblica moderata che un’epoca poteva essere messa in discussione. Mi riferisco all’arrivo di Monti a Palazzo Chigi.

Ha, o avrebbe, consigliato a Monti di fare il presidente del Consiglio?
Non me l’ha chiesto! In quel momento avrei sostenuto quella scelta, diversamente dalla decisione di presentarsi l’anno dopo alle elezioni. Visto come sono andate le cose, credo che comunque l’atteggiamento generale verso Monti sia ingiusto. Non sono sicuro che senza la lista Monti il risultato elettorale sarebbe stato migliore. Monti ha il merito di aver cercato di arginare il populismo: malattia terribile, per me. E l’Europa? Torno al populismo, al nazionalismo. Mali estremi. La storia parla. Tornare indietro evoca questi spettri. Allora, avanti con più decisione ed equità.

Mai stato tentato dalla politica?
In gioventù mi avevano un po’ corteggiato. Parliamo della fine degli anni Settanta, metà della Prima Repubblica. Non ebbi coraggio.

Le piacciono le larghe intese di governo?
Forse era l’unica soluzione possibile. Spero che si esca da quest’assurdo pantano dell’Imu come se fosse l’unico problema del Paese e che si affronti in fretta il problema di una crescita equa delle sempre più inaccettabili diseguaglianze sociali: un macigno per la ripresa.

Lei è un giurista. Che pensa del caos sulla legge Severino e sulla decadenza di Berlusconi? È stato difficilissimo poter affermare il principio che un condannato non può rappresentare i cittadini.
Del caso si è parlato tanto. Voltiamo pagina. Concentriamoci con rinnovata energia sul problema generale dello scarso rispetto per la cosa pubblica e la legalità. Sono originario di un paese dell’Alto lago di Como, quasi Svizzera. Il lido di un paese vicino è stato chiuso per infiltrazioni della ‘ndrangheta nella società che lo gestiva. Non possiamo pagare un così terribile prezzo alla malavita. Non possiamo vivere in un Paese dove la corruzione, secondo la Corte dei Conti, costa 60 miliardi di euro l’anno.

Quali sono i peggiori difetti della politica?
L’assenza di visioni, di speranze. E per una certa politica l’ansia dello smantellamento del welfare, il darwinismo sociale, un clima generale d’impotenza, spesso crudele, dove la parola “sostegno” è relegata alla beneficenza e al paternalismo. La difficoltà di uscire dalla morsa tra casta e populismo.

Lei è di sinistra?
Dipende da cosa vuol dire, oggi. La mia famiglia è sempre stata progressista.

Voterà alle primarie di domenica?
Sì, ma non dico per chi.

È favorevole a una maggiore tassazione dei grandi patrimoni?
Sì. Sia a una appropriata tassazione dei patrimoni, sia alla tassazione delle operazioni finanziarie, piuttosto che sul lavoro. Mi sembrerebbe giusto e doveroso. Il mio più grande amico nella vita è stato Tommaso Padoa-Schioppa: siamo cresciuti insieme come fratelli. Quando Tommaso disse: pagare le tasse è bello, l’hanno criticato da ogni parte, ma aveva profondamente ragione. Pagare le tasse è un dovere civile. La cultura corrente è troppo tollerante verso l’evasione. È purtroppo un male endemico.

La pressione fiscale è mostruosa in Italia.
Perché in pochi pagano le tasse! E perché le tasse sono mal distribuite. Io sarei favorevole a sistemi impositivi incentivanti e così a sistemi, ad esempio, che permettessero al contribuente di destinare, in sede di successione, il prelievo ad aule universitarie dedicate, apparecchiature in ospedali, luoghi di ritrovo per gli anziani, o ad altra destinazione sociale e civile. La cultura dell’evasione tuttavia purtroppo non dipende solo dal carico fiscale.

Ha nostalgia del Pci berlingueriano?
Conservo manifesti in cui uno degli slogan di quel partito e di quel segretario era “Il partito delle mani pulite”, vent’anni prima di Tangentopoli. Era un partito con tanti difetti, ma aveva passioni, valori, obiettivi. E ciò valeva anche per altri partiti. Oggi questo si vede molto poco.

Perché la giustizia è stata così bistrattata senza che ci fossero reazioni o anticorpi?
Se lei chiede a dieci cittadini se sono soddisfatti del sistema giudiziario italiano, temo che la maggioranza non lo sia. La politicizzazione della giustizia però non è il problema. C’è bisogno di un poderoso sforzo innovatore che faccia sentire la giustizia vicina, certa, “giusta”. Ci vorrebbe un libro bianco con cinquanta proposte per rendere più equo ed efficiente il sistema, che va rifondato. Basta con lo stillicidio della prescrizione, del processo breve o lungo a seconda dei mezzi o dei comodi di ciascuno. Anche l’amnistia o l’indulto fatti così, senza riforme strutturali, sono pannicelli caldi. La giustizia, la moralità pubblica, sono le infrastrutture di cui ha bisogno il Paese. Altro che ponte sullo Stretto.

Che pensa delle non dimissioni del ministro Cancellieri?
La vicenda è alle spalle. Oggettivamente mi pare che al problema di sensibilità si sia sovrapposta anche una valutazione di responsabilità politica.

Lei conosce i Ligresti? Che opinione ha di questo scandalo finanziario?
Sì, ho conosciuto i Ligresti. Non voglio commentare la vicenda in sé, sulla quale lavorano i magistrati, ma esprimere un convincimento generale che va di là da quel caso. Guai alle imprese che si basano sui padri padroni, siano essi proprietari o manager con poteri troppo vasti: sono mine vaganti. I controlli e i controllori sono necessari. Molte volte ti dicono: “ma no, i manager devono avere briglia sciolta”, poi si vedranno i risultati alla fine. Novanta volte può andare bene, dieci possono generare disastri. Che pagano tutti. Ci vogliono controlli societari, controlli dell’opinione pubblica, giornalisti indipendenti. Analisi, non gossip.

Twitter: @silviatruzzi1

Da Il Fatto Quotidiano del 6 dicembre 2013