Con l’approvazione del disegno di legge sulla legalizzazione della cannabis, da martedì scorso, quella dell’Uruguay è la prima legislazione al mondo ad aver eliminato la marijuana dalla lista delle sostanze illegali e la prima in assoluto ad aver rotto il fronte dei 188 paesi aderenti ai Trattati internazionali che dal 1961 disciplinano la lotta al traffico ed al consumo di sostanze stupefacenti e psicotrope, vietando tassativamente qualunque forma di legalizzazione.
Anzi, la Convenzione del 1988 , figlia della “Guerra alla droga” dell’amministrazione Reagan, si spinge oltre e prevede espressamente l’obbligo per gli Stati parte, di introdurre nelle legislazioni nazionali sanzioni contro il consumo. Per questa ragione, infatti, la Corte Costituzionale bocciò il referendum antiproibizionista dei Radicali, spiegando“Nella esecuzione della menzionata Convenzione internazionale e nell’attuazione degl’impegni e degli obblighi con essa assunti è, dunque, strettamente circoscritta la discrezionalità normativa degli Stati contraenti, e quindi dello Stato italiano, che non può comunque – senza divenir passibile delle previste misure e senza incorrere in responsabilità d’ordine internazionale – spingersi addirittura fino alla radicale ed unilaterale liberalizzazione della coltivazione, del commercio, della detenzione e dell’uso di una sostanza espressamente contemplata come stupefacente nella Convenzione”.
Agli Stati che hanno voluto aggirare queste previsioni è servito escogitare delle scorciatoie giuridiche, come l’ormai ben collaudato sistema olandese dei coffeeshop, implementato solo per via amministrativa, al fine di evitare la trappola dei trattati: in pratica, i comuni consentono ciò che lo stato vieta. E in fondo, questa ambiguità, la stanno vivendo anche negli Usa, paese alfiere negli anni ’50 della guerra globale alle droghe: nonostante il Colorado e lo Stato di Washington abbiano legalizzato, da novembre 2012, la cannabis a scopo ricreativo, il governo federale, firmatario ufficiale delle Convenzioni, rimane proibizionista.
Martedì, l’Uruguay si è spinto un passo oltre: ha gettato nella spazzatura, in un colpo solo, le tre Convenzioni, ormai superate dalla storia, lanciando una sfida all’Incb ed all’Unodc. Il primo è un organismo internazionale previsto dalle Convenzioni, l’altra un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite contro il traffico di droga ed armi. Entrambe le agenzie sono state criticate per l’approccio smaccatamente “di parte” (proibizionista) e per la chiusura netta a qualunque ipotesi alternativa alla “tolleranza zero” sulle droghe. L’Incb non ha tardato a commentare la riforma voluta dal presidente Mujica, premettendo che si tratta di un provvedimento in violazione delle Convenzioni internazionali, aggiungendo inoltre: “La cannabis dà dipendenza e può danneggiare il corretto funzionamento dell’attività cerebrale. Inoltre fumare cannabis è più dannoso che fumare tabacco”.
E a mettere il carico da 90 arriva anche l’Unodc che in un comunicato ha espresso sconcerto per la decisione del governo sudamericano, presa unilateralmente. Ma al di là delle dichiarazioni solenni, le “narcoburocrazie” oggi non hanno più l’influenza degli anni ’80 e ’90. Se allora le agenzie avevano il compito (ed il potere) di combattere qualunque ipotesi alternativa alla tolleranza zero, oggi è proprio il radicalismo proibizionista ad essere alla sbarra. I più importanti testimonial del “neo-antiproibizionismo”, che a differenza del “parente libertario” degli anni ’70, non pone l’accento sul diritto al consumo ma sugli effetti collaterali prodotti dalla “cura alla droga”, sono l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan e l’ex presidente brasiliano Fernando Cardoso, entrambi parte della Global Commission on Drug Policy, che chiedono a gran voce la fine di quella guerra che ha prodotto solo corruzione, morti e sistematiche violazioni dei diritti umani.
La cultura del consumo regolamentato, almeno per ciò che riguarda la cannabis, è ormai matura da qualche tempo per la “presa del palazzo”. Mancava solo un paese che avesse il coraggio di “fare il primo passo”. Con l’apertura dei dispensari “ricreativi” a Washington ed in Colorado e l’entrata in vigore della prima legislazione (nazionale) antiproibizionista al mondo in Uruguay, ecco cadere quasi in contemporanea due pilastri della “guerra alla droga”: da un lato la crociata internazionale degli Usa, con la cannabis legale ormai in quasi la metà degli Stati della sua federazione, si fa certamente più debole; dall’altro, la riforma dell’Uruguay che sblocca la decennale inerzia della diplomazia internazionale di fronte alle potenti agenzie Onu, mostra al mondo a questo punto l’unico modo possibile, da parte degli Stati, di riformare le tre Convenzioni: farne coriandoli e riappropriarsi della sovranità piena sul tema droghe.