L’11 Dicembre 2013 la Corte di Palermo è venuta in trasferta a Milano per il processo sulla Trattativa Stato-mafia per ascoltare Giovanni Brusca. Ci sta che il collaboratore non abbia voluto andare dal carcere di Velletri a Palermo e abbia preferito un’altra aula di video-conferenza. Firenze? Roma?
No. È stata scelta forse per esigenze a noi poco comprensibili l’aula bunker 2 di Milano. Via Guido Ucelli Di Nemi. Siamo andati: del resto siamo costituiti parte civile nel processo più importante che la storia d’Italia ricordi: lo Stato chiamato in un’aula di giustizia insieme ai capi di Cosa nostra.
Ovvero per la prima volta in Italia la magistratura palermitana, preposta dalla Dna, attraverso coraggiosi magistrati ha voluto capire se davvero quella Trattativa Stato-mafia – che i processi di Firenze per le stragi del 1993 avevano già messo in risalto – ci sia stata veramente.
Vediamo se riesco a mettere in evidenza per me, per l’Associazione che rappresento, quella dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, a dare l’esatta visione di che cosa ci è toccato in questo mercoledì umido milanese. Va premesso che noi siamo le vittime di Salvatore Riina e Giovanni Brusca e altri mafiosi del loro calibro.
Rappresentiamo coloro che la notte del 27 Maggio 1993 sono saltati in aria in via di Georgofili, mentre dormivano, del resto erano le 1:04 quando i due capi di Cosa nostra sono passati di lì con 277 chili di tritolo comprato a buon mercato. Sicuramente il denaro – quello dell’esplosivo di via dei Georgofili – transitato in qualche conto corrente bancario, e se potessimo sapere il nome dell’intestatario, forse qualche sobbalzo sulla sedia lo faremo. E forse capiremmo quello che ci è toccato ieri a Milano.
Ebbene torniamo a Milano.
Siamo arrivati di mattina di buon’ora, ci siamo messi in fila perché i metaldector non funzionavano. Sono entrati solo gli avvocati. Dopo un’ora circa proviamo a chiedere se anche le parti civili devono fare la coda, e i giornalisti hanno detto di si, del resto le forze dell’ordine non avevano disposizioni in merito, quindi cos’erano poi queste parti civili che pretendevano di entrare prima della stampa?
Bisogna alzare sempre la voce per farsi capire, e io l’ho fatto, me lo posso permettere, del resto vado in giro a rappresentare bambini di 50 giorni di vita e ragazzi di soli 20 anni ammazzati come cani perché forse lo Stato ha trattato con la mafia 20 anni fa. Fra le urla, così si è compreso finalmente che eravamo quelli che i 277 chili di tritolo lo hanno preso sulla testa e che avevamo il diritto di entrare con gli avvocati. Era solo questione di incomprensioni.
Raggiunta l’aula, fra lo scherno di chi ci osservava, e non ci conosceva, perché a Milano cosa si vuole se ne sappia della strage di via dei Georgofili a Firenze, ci rendiamo subito conto che forse abbiamo sbagliato processo. Infatti la percezione non è quella di un’Aula di giustizia, bella, spaziosa come quella di Firenze, dove fu processata la mafia senza politici al seguito, ma qualcosa di rimediato per un processo di periferia.
Mura scrostate, tavoli angusti dove sedeva l’accusa in condizioni di precarietà anche solo per girare le carte, un po’ più comoda la difesa degli imputati, un freddo tremendo, trasformatosi poi nel pomeriggio in una vera sauna per tutti, veramente poca pulizia, ma pazienza.
Però malgrado non fossimo nel salotto buono della giustizia, questo va detto, nessuno si sarebbe mai aspettato – almeno noi – che il pm Nino Di Matteo non fosse presente.
È vero che Riina, il capo di Cosa nostra di tanti anni fa, parlando con un soggetto in carcere, uno che criminale quanto lui si intendevano, pare abbia detto: “Nino Di Matteo lo uccido come un tonno”, e ancora alla domanda su come avrebbe fatto sembra abbia risposto: “Al processo ci dovrà venire”. Ma che lo Stato desse tanta soddisfazione a Riina dopo 20 anni, non ce lo aspettavamo davvero.
Anche considerando che Brusca quando è arrivato in Aula, era circondato dal fior fiore del Gom: 10 ragazzi aitanti tutti per lui pronti a farsi ammazzare.
La domanda ci ha perseguitato fino a sera: ma come può uno Stato accettare di assecondare le minacce di un soggetto come Riina Salvatore, intimidazioni verso uno dei suoi magistrati, dei suoi uomini istituzionali?
È ovvio, Riina avrebbe tuonato davvero contro il pm Di Matteo proprio perché resosi conto di essere stato preso in giro da chi gli fece promesse sull’annullamento del 41 bis. Non vuole fare brutta figura con suoi uomini e, così arrabbiato, ha minacciato Di Matteo.
Oppure più semplicemente bisognava ancora di più rendere difficoltoso quel processo sulla Trattativa Stato-mafia che pare siamo davvero in pochi a volerlo e le minacce di Riina hanno finito con l’ottenere l’effetto sperato.
Ci sta tutto, ma, ora davvero bisogna che poniamo il quesito:
Ma dove viviamo? In quale Paese del mondo civilizzato lo Stato darebbe a Riina la possibilità di sentirsi tanto importante? Come del resto ha dimostrato di sentirsi.
Se sono bastate minacce mafiose, come si farà a cambiare questo Paese, a renderlo senza mafia, con le processioni laiche?
La risposta da dare a Riina da parte di uno Stato democratico era solo una: far venire Di Matteo a Milano in tutta sicurezza, quella sicurezza che ogni Stato deve garantire a tutti i cittadini, invece siamo ancora come 20 anni fa quando qualcuno ha consegnato a Riina le chiavi di Firenze, nessuno ha potuto aiutarci e noi abbiamo subito tutta l’incapacità dello Stato a tutelarci nei nostri letti all’1:04.
È per questo che vado fuori tema e dico: ma quale cultura si propone di sponsorizzare a Firenze il Governo il 27 Maggio prossimo se siamo ancora ad avere paura del tritolo di Riina?