Mentre in questo Paese assistiamo a dibattiti un po’ su tutto, la cui motivazione è spesso più fondata sulla voglia di protagonismo e sulla necessità di fare ascolti più che sull’analisi dei problemi (quelli veri), è un po’ che non sento parlare delle nostre università.
Non sono sicuro che la cosa possa suscitare eccessivi entusiasmi, ma forse vale la pena fermarci un attimo a riflettere che, secondo i dati pubblicati sul sito dell’Anagrafe studenti del Miur, nell’anno accademico 2012-2013 risultavano attivati in Italia 10.221 corsi, a cui erano iscritti 1.692.984 studenti suddivisi in 87 sedi universitarie (comprese quelle telematiche).
Di fronte a questi numeri ed alle aspettative di quasi due milioni di ragazzi che hanno deciso di prolungare il loro percorso formativo iscrivendosi all’Università, si può tacere sul fatto che esiste un significativo divario tra atenei privati a cui si possono aggiungere alcuni (pochi) atenei statali considerati di eccellenza e tutto il resto degli atenei?
Si può tacere del fatto che quella parte degli studenti che frequentano l’Università statale per la impossibilità economica di accedere a quelle private, oltre a dover subire l’inefficienza di tali strutture, devono vedersi preferire, almeno nell’ingresso al mondo del lavoro privato, quelli che hanno potuto pagare rette annuali sempre più lontane dalle reali possibilità di gran parte delle famiglie italiane?
Senza entrare nella qualità dei percorsi formativi offerti oggi dalle università, la vera differenza che si riscontra parlando con docenti e studenti è che le università private garantiscono due elementi essenziali che qualificano, in tutto il mondo, oltre alla qualità dei docenti, il valore dell’insegnamento universitario: organizzazione e network.
Purtroppo, organizzazione e network sono anche le due componenti che permettono alle università di attrarre docenti più qualificati o più motivati, così chi ha la possibilità di studiare nelle università private non solo avrà accesso a strutture più efficienti ed a più contatti con le realtà straniere o del mondo del lavoro, ma usufruirà anche di una docenza nella maggioranza dei casi più organizzata e motivata.
In realtà, fino alla fine degli anni ’80, la qualità degli insegnamenti impartiti nelle principali università statali italiane era di altissimo livello e del tutto paragonabile, se non in alcuni casi superiore, a quello delle università private.
Oggi la qualità dei docenti non basta più; se le università vogliono garantire uno sbocco professionale ai loro studenti o semplicemente una formazione in linea con le esigenze del contesto attuale non possono più basarsi solo sulla qualità dei docenti (quando c’è). Devono investire in organizzazione e contatti e così attrarre competenze dai settori vitali dell’economia e della cultura, dando loro la responsabilità di innestare un contributo di professionalità non accademica e di relazione con il mondo del lavoro.
La buona notizia che questo passaggio si può fare anche a risorse limitate dato che gestire male costa di più che gestire bene e sapere cosa fare è certamente più produttivo che non saperlo; la cattiva notizia è che non mi è chiaro chi lo stia facendo. Purtroppo, fino a quando qualcuno non lo capirà, continueremo a penalizzare gran parte di quegli studenti che ancora scelgono le Università statali italiane non come area di parcheggio, ma come luogo di formazione di cultura e attese.