Sebbene siano passati ormai giorni dal fatto in questione, non sono riuscito a smettere di pensare alla folkloristica ospitata di Luciano Ligabue a “Che Tempo Che Fa”: dove (per farla breve) un esagitato Fabio Fazio ci ha spiegato perchè valga la pena acquistare l’ultimo album “Mondovisione” convincendoci, forse, giusto del contrario. Nonostante l’impegno e la dedizione messi in campo dal futuro presentatore di Sanremo, quello che personalmente ne ho tratto è un’accozzaglia di luoghi comuni che, almeno per il sottoscritto, la dice lunga circa il paese che viviamo e la gente che siamo: colpa di una marchetta televisiva come tante se ne vedono ma che, a differenza del Mastrota di turno, aveva la pretesa di voler quasi “far cultura”, partendo da ciò che rimane sia dell’arte di Ligabue così come della piacevolezza di Fazio.
E non poteva non essere quello il contesto migliore per inscenare un simile delitto: un po’ come le piazze chiuse dei politici di questi anni, ecco per Ligabue la roccaforte di un programma televisivo che si vanta di dispiacere a molti quando in realtà accontenta tutti, laddove la sinistra non è mai stata simpatica a nessuno, ecco che demandava a qualche membro della sua (scarsa) intellighenzia: uno spot elettorale malriuscito, culminato nella dichiarazione strappalacrime di Ligabue che, delusissimo, non sarebbe andato a votare alle primarie del Partito Democratico ma la notizia era in realtà vecchia di due giorni, uscita fresca fresca in coincidenza con il rilascio dell’album (guarda caso). Così, mentre pensavo alle decine di migliaia di militanti che sicuramente non se ne sarebbero fatti una ragione facilmente, mi chiedevo dov’era il “rocker” di Correggio (e con lui, tanti esimi colleghi) mentre questo paese andava a rotoli verso il più totale disastro culturale: arrivando al punto di non sapere più se la lettera “h” vada collocata o meno in presenza del verbo avere (ma quello, almeno, Ligabue lo sa).
Nella povertà delle sue ultime uscite discografiche, egli non solo ha reso i suoi ultimi dischi pura mobilia ma ha tradito, ancor prima, la vera missione del cantautore: quella cioè di raccontare la realtà. Quella di tutti i giorni, non la quotidianità di un ex artista ingrassato a dovere da un giro di accordi e di intenzioni che è lo stesso almeno da “Buon Compleanno Elvis”: e lo sforzo, non sarebbe neanche dei peggiori, vista la mole immane di spunti e riflessioni che un paese come l’Italia offre, ammesso (e non concesso) che ci si voglia schierare.
Di Ligabue ricordiamo certo i videomessaggi a sostegno del V-Day di Grillo ma ne potremmo facilmente concludere che c’abbia guadagnato più lui che il comico genovese, che in molte occasioni, tra l’altro, ha dimostrato un gusto musicale raccapricciante, accompagnandosi sul palco con il peggio dell’hip hop italiano degli ultimi anni. Ammesso che ne esista un “meglio”. Del “Lucianonone” nazionale apprezzo invece il taglio di capelli, che un po’ gli invidio e dimostra che, a dispetto di una discografia monocorde, è invecchiato comunque bene: seppure la maturità dovrebbe metterlo almeno in condizione di evitare di ‘percularci’ con il playback, perché poi capita (sempre da Fazio) che un brano su quattro tu debba suonarlo davvero e ne esce la peggior versione possibile di “Ho Perso Le Parole”, un altro dei pochi pezzi ‘recenti’ in cui era possibile avvisare una parvenza di sincerità. Fatto sta che non ce ne siamo neanche accorti, perché non pago delle stecche ha pure deciso di suonarne neanche la metà.
Ma la colpa peggiore di Ligabue, oltre al fatto di essersi pure improvvisato disc-jokey per far sentire al mondo quel gioiello imperscrutabile che è “Rebel, Rebel” di David Bowie (aiutatemi a dire “wow”), è quella di aver forgiato un’intera generazione di musicisti all’uso di una poetica e di una scrittura che definire banale è l’eufemismo degli eufemismi: vi invito a fare un giro in qualcuno dei centinaia di contest musicali che colorano l’Italia e lasciarvi nauseare da uno dei suoi miliardi di emuli. E questo non fa bene ma non perché la complessità sia necessariamente un’arma vincente: lo dimostra ad esempio la musica di Rino Gaetano o Ivan Graziani, efficace quanto lineare senza però perdere la sua componente più irriverente, provocatoria, scomoda. Non fa bene perché incita ad una visione sedentaria della vita, dove l’amore conta, le persone si vogliono bene, si può morire di sentimenti e se hai un minuto riesci pure a parlare con Dio, magari per distogliere l’attenzione dal fatto che il riff di “Happy Hour” è simile a quello di “Sweet Child ‘O Mine” dei Guns N’ Roses o per celare la somiglianza imbarazzante tra il bridge di “Bed Of Roses” dei Bon Jovi ed il ritornello di “Certe Notti”.
Eppure basterebbe così poco per risultare simpatico a quelli che, come me (che per definizione sbagliano), non andrebbero ad un suo concerto neanche drogati a dovere: quello che vorrei aspettarmi da Ligabue non è un bel disco, non è un tour, non è la preferenza per Renzi o Civati o Cuperlo quanto piuttosto una mano tesa concretamente verso chi, di musica, non campa ma muore, finendo nel calderone Siae dei diritti non corrisposti che, neanche a dirlo, finiscono nelle tasche dei rocker in affitto in un paese ormai in svendita.
Tu Luciano, tu Vasco, tu Biagio, tu Laura, tu Elisa sappiate che siete tutti ancora in tempo: non vi chiediamo la Luna quanto di spostarvi e lasciarci vedere la luce. Ve ne saremmo grati.