Se c’è qualcosa della “nuova” Libia che ricorda quella di Gheddafi è lo sfrenato ricorso alla tortura.
Era diffusa, nel trentennio gheddafiano, per punire dissidenti e brutalizzare migranti e richiedenti asilo nei centri di detenzione finanziati anche dall’Italia. A venire torturati nelle prigioni libiche, erano anche presunti terroristi sottoposti a rendition dalla Cia.
La tortura in Libia è diffusa, ancora oggi, per punire i nostalgici del vecchio regime e, di nuovo, migranti e richiedenti asilo.
Hussein Radwal Rahel non era un dissidente ed era un cittadino libico, per di più un soldato scelto delle Forze Saiqa, un’unità speciale costituita da commandos alle dipendenze del ministero della Difesa. “Era”, perché di tortura è morto il 2 dicembre. Più esattamente, per infarto e arresto cardiocircolatorio a seguito di tortura.
L’autopsia ha confermato le accuse dei suoi genitori, a loro volte corroborate da fotografie del cadavere, ripreso col volto tumefatto, con lividi al petto, alla schiena e alle gambe e con segni di scariche elettriche sulle braccia.
Hussein era stato visto per l’ultima volta vivo alle 11 di mattina del 1° dicembre all’interno della base delle Forze Saiqa, a Tripoli. Un comandante dell’unità speciale ha ammesso ai suoi familiari che Hussein era stato “interrogato” per ore in merito alla scomparsa di un veicolo militare dalla base. Dopo le torture, era stato gettato esanime in un container per il trasporto marittimo, senza materasso né coperta e soprattutto senza un medico che lo visitasse. Il giorno dopo, nel container c’era un morto.
A settembre, il primo ministro libico aveva elogiato le Forze Saiqa, definendole “la nascita del nuovo esercito libico”. Parevano un modello riuscito d’integrazione tra ex militari di Gheddafi e membri delle milizie che avevano deciso di entrare nell’istituzione militare. Quelle parole, oggi, suonano macabre.
Ironicamente, ad aprile il Congresso libico aveva approvato una legge contro la tortura, che prevede fino a cinque anni di carcere per chi è giudicato colpevole di aver inflitto sofferenza fisica o mentale a una persona detenuta sotto la sua autorità, allo scopo di ottenere una confessione forzata. Se la tortura provoca la morte, la pena prevista è l’ergastolo.
Una buona legge, indubbiamente, che potrebbe essere presa a modello dall’Italia. Solo che, a Tripoli, nessuno è mai stato sottoposto a indagine perché sospettato di averla violata.
In Libia, solo quest’anno, vi sono stati almeno 12 casi di morte a seguito di tortura. Tra settembre 2011 e luglio 2012, Amnesty International ne aveva documentati 20.