mi ritrovai a non aver capito
ma poi ci fu una distrazione
o forse fu un’insolazione
a dirmi: “Non c’è niente da capire”»
[Luciano Ligabue, Siamo chi siamo, Mondovisione, 2013]
Mondovisione è appena uscito. Dentro c’è un brano esemplare che si intitola Siamo chi siamo, forse il pezzo migliore. Lì c’è tutto il Liga-pensiero: riferirsi alla generazione dei trentacinque-quarantenni (il mezzo del cammin), non fare mai un passo in più, dare il problema e mai la soluzione per via della santa e irrisolvibile tautologia del «No, perché no».
«Siamo chi siamo», ok, e allora? Cosa siamo? Me lo dici con altre parole o no? No. Prende in prestito nientemeno che Dante, con partenza pomposa e il verso più famoso dell’intera letteratura italiana, per dire cosa? Che non c’è niente da capire. Una generazione derubata che non ha niente da capire? Mah… Vediamo.
Liga è un po’ un Vasco che alla generazione bruciata sostituisce il mito della generazione fregata, e che quindi fa due cose: rileva e denuncia la fregatura che le hanno dato, ma la denuncia alle stelle, al cielo, al dio della decenza, a un mondo che le hanno insegnato a rispettare; si lamenta perché la giustizia tarda ad arrivare. Stop.
Ci si aspetta sempre tanto dal suo prossimo album, e poi finisci per accontentarti. E capisci che quell’accontentarti è ciò che cercavi da lui. Sempre. Ligabue sarà sempre generazionale, da volergli bene. Io, per esempio, sono di quella generazione e io a Ligabue voglio bene.
Non è affatto un caso che Matteo Renzi lo citi volentieri nei suoi discorsi e, per esempio, abbia addirittura chiuso quello finora più importante della sua carriera politica col titolo di una sua canzone, “il meglio deve ancora venire”.
Citarlo vuol dire sfruttare l’empatia di far parte di quella temperie, aver vissuto quelle stesse sensazioni, essere una sedicente “generazione per bene ingannata dal mondo”: Renzi fa il passo in più e si erge a ‘Potere nuovo’ che può risolvere, rottamare i colpevoli cattivoni. Si frega le mani il sindaco di Firenze: una massa così immensa di persone, una generazione intera – anche due – a cui Liga ha inculcato il credo della lamentazione educata: «ve li risolvo io i problemi», sembra dire Renzi, mentre per Ligabue il mal comune dell’avvertimento della fregatura basta già al mezzo gaudio della resa artistica.
E quel mezzo gaudio è anche il fatto di accontentarsi all’uscita di ogni album.
L’ho conosciuto con Buon compleanno Elvis (1995) e già c’era chi parlava del primo Ligabue, quello vero, quello non ancora commerciale. Ora: il primo disco del correggese è del 1990, si intitola col suo cognome, ed è quindi uscito solo 5 anni prima dell’incriminato album del 1995. Troppo poco, mi sembra decisamente troppo poco per parlare di una poetica degli inizi. La realtà è che Ligabue con Buon compleanno Elvis è tornato a scrivere canzoni col cipiglio di chi vuole arrivare a più gente possibile, e che quindi fa pezzi più coinvolgenti, ritmati, si direbbe “orecchiabili” se l’aggettivo per le canzoni non fosse sciaguratamente diventato denigratorio.
Nel primo disco ha raccolto le canzoni più belle che aveva scritto; nel secondo aveva pochi pezzi forti – per dire: c’è anche Urlando contro il cielo, il migliore – e ha cominciato ad “arteggiarsi”, cioè a fare cose più ricercate e che non rispecchiano il suo genere; con Buon compleanno Elvis è tornato Ligabue: un cantautore scarso ma un grandissimo scrittore di “canzoni epidermiche a rispecchiamento generazionale”. “Epidermiche” perché piacciono “a pelle” e non vanno mai in profondità, non dicono niente, non danno risposte, per dirla con Andrea Scanzi, che tutte questa cose le scrive bene e definitivamente nel suo ultimo libro Non è tempo per noi (Rizzoli, 2013).
Ligabue è fatto per lo stadio, per la massa, per far ballare in coro; è un rocker al plurale, orizzontale, mai verticale: l’antipodo dell’esistenzialismo, culturalmente disinteressato all’analisi interiore e che semmai ne ha grande rispetto e non manca di scrivere canzoni che ne propongono l’afflato, emiliano pragmatico che rileva, tutt’al più, un malessere passeggero da duro e buro della bassa, che non ha tempo per l’astrattezza introspettiva. Soffre da solo. E paga le tasse, eticamente.
Ed è generazionale, proprio per questo suo essere plurale, in maniera irrisolvibile.
Vasco si è bruciato, con la sua generazione, intorno alla metà degli anni Novanta, e non ci pensa proprio a risorgere dalle ceneri: sarebbe un gesto davvero poco spericolato. Solo che non lo sa. Sally è l’ultima sua canzone, poi ha cominciato inesorabilmente a ripetere l’identico. Oggi è diventato un trascurabile sessantenne che si limita a usare Facebook invece di scriverci una canzone. Per intendersi: è come se negli anni Ottanta si fosse limitato a drogarsi, invece di scrivere Bollicine; a noi la canzone chi ce l’avrebbe data? La forza sociale delle liberalizzazioni – allora –, dell’allucinazione, della devastazione svampita delle droghe, si fece carne, si fece canzone, fu Bollicine. La forza sociale di Facebook – oggi – è semplicemente messa in atto, è un “clippino” non trasformato in arte che blatera rivoluzioni. Quindi Vasco non c’è più, per quello che può interessarci, cioè in quanto scrittore di canzoni.
Ligabue ci sarà sempre e non sbaglierà un disco, non sarà mai il suo tempo, urlerà al cielo senza risposte e senza volerne mai veramente dare e avere, sarà sempre fregato e sempre migliore di chi lo fregherà.