Giovedì scorso (12 dicembre) mi sono trovato involontariamente testimone degli scontri nella mia Università, la Sapienza di Roma. E’ sorprendente quanto poco possa vedere un testimone oculare che non sia specificamente interessato all’evento: io ho sentito due o tre botti e visto un po’ di studenti che si affollavano sui gradini del Rettorato; il resto l’ho letto sui giornale. La protesta mi ha un po’ riportato indietro nel tempo: era identica a quelle di dieci, venti e trent’anni fa e si è svolta secondo un copione noiosamente scontato. Era in corso “la prima conferenza nazionale sulla biodiversità intitolata ‘La Natura dell’Italia. Biodiversità e aree protette: la green economy per il rilancio del Paese’, organizzata da Federparchi, Unioncamere e Fondazione per lo sviluppo sostenibile”. Erano invitati il Presidente Napolitano (che poi non è venuto), il Presidente Letta (che poi non è venuto) e vari ministri e rappresentanti dell’industria e della ricerca (qualcuno è venuto).
Gli studenti hanno organizzato una manifestazione di protesta. E’ difficile stimare quanti fossero: io ne avrò visti un centinaio ma certamente nei viali che circondano il Rettorato ce n’erano di più. Perché protestavano? Non credo che ce l’avessero con la green economy. Ce l’avevano con il governo per i tagli al finanziamento dell’istruzione, dell’università, delle scuole di specializzazione. Com’era prevedibile, nella confusione generale della manifestazione sono state tirate tre bombe-carta e, mi si dice, qualche bottiglia. Nessuno si è fatto male, ma ovviamente c’era una situazione di pericolo (con una bomba-carta uno studente o un passante può facilmente riportare lesioni anche gravi e perdere un occhio o una mano). Il Rettore ha richiesto l’intervento della Forza Pubblica che aspettava fuori dai cancelli dell’Ateneo. La Forza Pubblica ha caricato gli studenti fermandone un paio; un altro paio ha riportato piccole lesioni. Il giorno successivo gli studenti hanno occupato il Rettorato ed una manifestazione culturale che era in programma è stata sospesa. Poi la situazione è tornata alla normalità.
Gli studenti universitari hanno sempre protestato contro i governi, fin dal Medioevo e dall’istituzione delle Università. Quello che stupisce (e che è stato magistralmente analizzato da Umberto Eco nel romanzo Il Pendolo di Foucault) è il carattere costantemente estemporaneo di queste manifestazioni, che si susseguono a distanza di anni e decenni senza nessuna evoluzione culturale: l’Onda era come la Pantera ed è come le proteste della settimana scorsa. Di fatto, semmai si nota una involuzione culturale: una volta gli studenti che protestavano erano di destra o di sinistra ed avevano dei riferimenti ideologici identificabili; quelli di sinistra legati ad una tradizione culturale nobile (era usuale leggere o pretendere di aver letto almeno Lenin e Gramsci). Oggi l’ideologia è aborrita, ma non è stata sostituita con riferimenti culturali più solidi, ed ogni protesta sembra nascere dal nulla come se fosse la prima del suo genere. Purtroppo senza cultura e senza storia non c’è progresso possibile: la protesta ha senso se chi protesta è portatore di una alternativa politica, che non può essere costruita altro che all’interno di un partito, pena la deriva verso la marginalità o verso il caos.
Un’ultima nota di colore: venerdì mattina (il 13 dicembre) alcuni studenti hanno girato tra le aule per convocare i loro colleghi all’assemblea che ha deciso l’occupazione del Rettorato: hanno raccontato gli eventi del giorno prima ed hanno accusato il governo di varie cose, tra cui di sostenere la Tav. Mi è sembrato un riferimento ideologico improprio: non c’entrava nulla né con la green economy né con i tagli dei finanziamenti per l’istruzione. E comunque: la Tav è una linea ferroviaria, che potrà essere giudicata più o meno utile e magari troppo costosa; ma non può giustificare la situazione di guerra civile permanente in Val Susa e neppure le occupazioni delle università italiane. Oggi parlare di Tav ha un senso quasi sinistro: evoca una protesta violenta contro la decisione di uno stato democratico. Se si vuole opporsi legalmente alla Tav bisogna organizzare un referendum abrogativo nei confronti della legge che l’ha istituita e vincerlo.