La vittima di violenza non è più libera di revocare la querela. Può farlo solo nei casi “meno gravi” dopo aver sottoposto la propria richiesta a un giudice. Basta già questo a far pensare che la donna sia diventata corpo/oggetto di interesse sociale la cui tutela è delegata allo Stato che quel corpo, di fatto, lo possiede. La direzione intrapresa però non è un progresso. Poca è la differenza tra quello che oramai può essere definito reato sociale e l’antico reato contro la morale.

Nel 1996 il reato di violenza sessuale cambiò definizione. Divenne infatti reato contro la persona, perché è la persona a essere offesa ed è sempre lei che può querelare. Erano conservatori, all’epoca, quelli che sostenevano che violare una donna fosse come violare tutta la società. Basandosi su quella convinzione, dunque, ritenevano non spettasse a lei la decisione di denunciare. Padre, fratello, marito, Stato, avrebbero dovuto assumersene la “responsabilità”.

Quanto succede oggi replica esattamente quella mentalità paternalista. La violenza sulle donne è tema di interesse sociale, la donna è proprietà di società/Stato, violare una donna è già violare i diritti umani e dunque tanto basta a giustificare interventismi che riducono la vittima a semplice oggetto che non sarà mai più legittimata a prendere alcuna decisione.

A pensarla così, naturalmente, alcuni femminismi istituzionali e nuovi patriarcati intenzionati a tutelare le “nostre” donne. La donna, in quanto vittima, dovrà perciò accettare la tutela giacché altrimenti su di lei peserà lo stigma della colpa per non aver adempiuto a quell’obbligo sociale.

La parola “vittima” (assieme alla parola “donna”) sta assumendo lo stesso significato di “malata”. Terminale. E le malate terminali, infliggendo anche accanimento terapeutico, dovrai curarle, perché non sanno scegliere da sole.

La cura sarà di competenza di chi vede la violenza anche dove a te potrebbe non sembrare tale. Ti insegneranno a riconoscerla e percepirla e quell’insegnamento, fatto di esperienza, estremamente utile, sconfina, però, a volte, nella pretesa dogmatica/normativa che tutte le donne debbano sentire e reagire allo stesso modo.

Si interferisce, talvolta, in senso moralista, perfino nella sfera del desiderio, patologizzando tutto ciò che va oltre la posizione della missionaria. Quello che piace a te deve piacere a me e se a me non piace mi dirai che io ho “interiorizzato” robe maschie delle quali dovrò liberarmi.

Segue perciò richiesta esplicita di esorcismi. Prima di fare uscire una donna dal cerchio della violenza bisogna fare uscire dal suo corpo il maschio interiorizzato.

Pronto ad assolvere al ruolo di esorcista c’è il patriarca (buono) il cui intervento, di questi tempi, è ampiamente sollecitato.

Nelle campagne di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne invece che investire sul percorso di autostima della vittima si preferisce infatti, spesso, fare marketing per riaffermare quella del “tutore”.

“I veri uomini rispettano le donne e usano le mani per accoglierle e proteggerle” si legge in una campagna che arriva dal mondo del rugby.

Con ciò si definisce un messaggio normativo rivolto agli uomini che ristabilisce l’ordine sociale, riassegna ruoli di genere affinché gli uomini tornino a fare i tutori. 

Ed ecco i ruoli: lei vittima, lui tutore. Lei è la fanciulla in pericolo e lui il cavaliere che la salva e la guadagna in premio.

Dire oggi “io mi salvo da sola” è un’eresia. Mi sbaglio se dico che tutto questo è un dejà vù?

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