I lavoratori della multinazionale di e-commerce incrociano le braccia, ma la tensione tra dipendenti e società emerge anche nelle aziende tedesche. A dimostrarlo sono i dati raccolti dall’istituto di statistica Statista e il Wirtschafts-und Sozialwissenschaftliche Institut tra il 2010 e il 2012
A febbraio scorso lo scandalo dei vigilantes razzisti, da novembre invece un alternarsi di scioperi ripresi in maniera massiccia all’inizio di questa settimana, proprio durante l’importante – commercialmente parlando – periodo natalizio. Amazon continua il proprio anno nero in Germania, almeno se si pensa al rapporto con i suoi dipendenti. Lo scorso inverno un’inchiesta della tv pubblica Ard aveva dimostrato che l’azienda a cui si erano appaltati i servizi di vigilanza utilizzava metodi oltremodo intimidatori per controllare il lavoro dei tanti impiegati, per lo più immigrati dall’est Europa.
Lo scandalo non si era fermato alla Germania, ma aveva avuto echi anche in Inghilterra dove il Financial Times aveva rivelato come anche lì i dipendenti non vivessero condizioni di lavoro ottimali e venissero perquisiti alla fine di ogni giornata di lavoro per evitare possibili furti. Da metà novembre invece la vertenza tedesca posa sull’attuale contratto collettivo dei dipendenti dei centri logistici Amazon, le cui mansioni a livello contrattuale sono equiparate a quelle degli speditori di pacchi, anziché di venditori per corrispondenza. Attualmente il salario orario risulta di 9,30 euro l’ora, superiore a quello minimo di 8,50 euro l’ora che il neo insediato governo Union/Spd si è recentemente impegnato ad introdurre dal 2016, ma comunque minore del 10,66 euro l’ora richiesto dal sindacato dei Verdi per il primo anno con un aumento a 11,39 euro per il secondo con straordinari pagati ben prima che scatti la mezzanotte come invece accade tuttora.
Nonostante il principio di cogestione (la Mitbestimmung), introdotto fin dal 1976 dall’allora governo socialdemocratico di Helmut Schmidt e che prevede sostanzialmente la partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle società attraverso un consiglio di sorveglianza, gli scioperi in Germania sono all’ordine del giorno. Secondo l’isitituto di statistica Statista, dal 2010 al 2012 le aziende tedesche toccate da scioperi sono aumentate quasi del 200%, ovvero dal 131 a 367 (nel 2011 erano 158, mentre per l’anno in corso manca ancora un dato ufficiale). Se parliamo invece del numero di lavoratori coinvolti, secondo il Wirtschafts-und Sozialwissenschaftliche Institut sono ben 1,2 milioni nel 2012, sei volte di più che nel 2011, con una grossa partecipazione anche nel settore pubblico (circa 300mila).
La maggior parte delle controversie sono nate da mancati accordi tra aziende e dipendenti. A meno che non sia parte in causa in quanto datore di lavoro, l’atteggiamento di base della Merkel, così come dai governi che l’hanno preceduta, è quello di intervenire solo in forma garantista, lasciando che quel modello di economia sociale di mercato, nato peraltro proprio in Germania ad inizio secolo, tra la Repubblica di Weimar e le teorie di Wilhelm Röpke, trovi da solo il proprio equilibrio. L’introduzione del già citato salario minimo di 8,50 euro da ora al 2016 voluta fortemente dall’Spd, è per ora recepita da molti economisti tedeschi come una forzatura degna di incrinare drasticamente l’intera economia tedesca, tra previsioni di rialzi sia della disoccupazione che dell’inflazione. Forse non sarà la soluzione giusta, ma i recenti fatti dimostrano che gli occupati tedeschi non si ritrovano più nell’attuale gestione del mercato del lavoro e che alcune riforme, forse, non sono più prorogabili.
Twitter: @daddioandrea