È un gran bene che la discussione sul bando del Ministero per i Beni culturali per 500 stages si stia allargando dalla rete ai giornali. Perché il tema è cruciale, e l’episodio rivelatore.
In sintesi estrema, è successo che a ottobre Enrico Letta (intervenendo a Otto e mezzo di Lilli Gruber) aveva annunciato 500 assunzioni «per la digitalizzazionedel patrimonio culturale italiano». Un lapsus? Dal decreto Valore Cultura appariva chiaro che non si trattava di posti di lavoro, ma di un programma di formazione annuale, finanziato con 2 milioni e mezzo di euro.
Quando è stato pubblicato il bando, chi aveva preso sul serio Letta ha gridato comprensibilmente allo schiavismo: come altro chiamare un lavoro a termine pagato 416 euro lordi al mese? A quel punto sono insorti tutti: i ‘giovani’ (solo in Italia lo si resta fino a 35 anni) che speravano di concorrere ad un lavoro, i precari che temevano di vedersi marginalizzare da una corsia preferenziale, gli interni che denunciavano le premesse per una futura sanatoria indiscriminata. Il ministro Massimo Bray, parlando domenica sera a Che tempo che fa? ha accettato le critiche con umiltà decisamente inconsueta, annunciando che avrebbe corretto il bando: cosa che è avvenuta l’altro ieri sera.
Ora, preso atto che si tratta di formazione, e non di lavoro, il punto non è la retribuzione oraria (che l’intervento di Bray ha raddoppiato). Perché purtroppo è normale che i laureati in archeologia o storia dell’arte facciano tirocinii senza nemmeno un rimborso presso le soprintendenze di tutta Italia. Ed è normale addirittura pagare anche più di mille euro al mese per ben più inutili master in Beni culturali erogati da moltissime università. Problemi più seri riguardano semmai i requisiti e le modalità di accesso: che senso ha ammettere lauree in Giurisprudenza o Psicologia per uno stage in digitalizzazione del patrimonio? E perché mai sceglierli attraverso un quiz, il più iniquo e stupido degli strumenti di selezione? Ma il problema dei problemi (come è stato notato) è: ma che diavolo faranno in concreto questi ragazzi? Esistono i presupposti per cui un sistema pericolante come quello della tutela possa trovare uomini e mezzi per formare questi ragazzi?
A nessuna di queste domande Bray è riuscito ad ottenere risposte interne. La struttura burocratica del Ministero ha sostenuto che le lauree sono tutte buone altrimenti si rischiano ricorsi (!), e che senza quiz il concorso costerebbe troppo (!!). Quanto a ciò che faranno i vincitori, buio totale. E si capisce allora perché Bray abbia avviato la macchina della riforma del Mibac (che speriamo giunga in porto entro l’anno): con una struttura messa così, nemmeno Giorgio Vasari redivivo riuscirebbe a governare alcunché.
Ma siccome a pensar male raramente si sbaglia, bisogna anche chiedersi se la genesi di questo scivolone sia proprio tutta interna al Mibac. Subito dopo la nascita del governo Letta, dalla cerchia di Astrid uscì la brillante idea di costituire «un fondo straordinario a maggioranza privata cui affidare l’assunzione di un numero di giovani con titoli di studio attinenti alla materia sufficiente a procedere entro un tempo definito (non più di due anni) e con l’indirizzo e la vigilanza degli Istituti e degli organi competenti alla totale catalogazione di tutti i beni del patrimonio artistico italiano mediante la semplificata scheda di identificazione».
Uno degli obiettivi di questa campagna straordinaria di catalogazione sarebbe stato quello di individuare nel patrimonio un «cerchio più largo, quello dove l’intreccio tra le esigenze di conservazione e valorizzazione non solo è di diversa intensità e di diverso reciproco rapporto, ma diverso è anche il modo di correlarsi agli altri interessi pubblici e/o privati in gioco, un regime per alcuni elementi differenziato o differenziabile in termini di modalità di gestione, forme di regolazione (comprese quelle contrattuali), snellimento procedure, durata delle concessioni o prestiti di lungo periodo (questione depositi di musei), disposizioni sulla mobilità dei beni». Un’idea, questa di stabilire diversi livelli di tutela, che avrebbe fatalmente aperto le porte ad alienazioni di ogni tipo. È dunque possibile che il bando Mibac nasca dal tentativo di disinnescare una simile bomba, riportando l’idea dentro un profilo di conoscenza e formazione.
In ogni caso, ciò che spiega sia gli errori del bando, sia l’eccesso di reazione contro il primo ministro che stia cercando di cambiare passo, è che il sistema Beni culturali è al collasso. Bray ha detto che nella situazione data non si poteva fare di più: ma da Fazio ha anche ricordato che, se la situazione data non cambia, il Mibac è condannato a morte, e con lui il patrimonio artistico. Occorre risalire almeno al livello di finanziamento pre-Bondi (si deve, cioè, recuperare un miliardo e mezzo di euro l’anno), e servono migliaia di veri posti di lavoro tecnici a tempo indeterminato, da coprire attraverso veri concorsi basati sul merito: tutto il resto è un inutile palliativo.
E bisogna farlo subito: come gridavano i cartelli degli studenti di storia dell’arte napoletani accorsi il 5 maggio scorso tra le macerie de L’Aquila abbandonata, «non c’è più tempo per aspettare domani».