Il buontempone, che dopo il primo numero grida ambo; il distratto, che chiede in continuazione notizie sulle uscite; lo sbadato, che rovescia qualcosa sul tavolo e fa scappar via i fagioli segnanumero; il dispensatore di pillole di saggezza, che commenta ogni estrazione con i simboli della smorfia. Sono solo alcuni dei tipi nostrani alle prese con la tombola, il gioco natalizio di famiglia per eccellenza.
Nel 1734 Carlo III di Borbone volle “ufficializzare” il gioco del lotto: in forma clandestina, oltre a turbare l’ordine pubblico, sottraeva entrate all’erario. A opporsi al re di Napoli un frate domenicano, Gregorio Maria Rocco, con cui il sovrano dovette scendere a patti: il gioco, durante il Natale, sarebbe stato sospeso per non distrarre il popolo dalla preghiera. La gente, per tutta risposta, portò il lotto all’interno delle case, con i 90 numeri messi nel panariello (un cesto di vimini) e la scrittura in proprio delle cartelle. Così nacque la tombola, che in breve avrebbe conquistato l’intera penisola.
A Venezia il gioco, già ben noto fin dal ‘700, dai luoghi di ritrovo privati si diffuse rapidamente nelle osterie e nei caffè. I partecipanti erano disposti intorno a un lunghissimo tavolo, con il banditore (obanchiere, o tenitore; a Napoli assuntore) a capotavola. Nell’Ottocento la tombola pubblica s’inquadrava nella cornice di una festosa manifestazione annuale in piazza San Marco; i numeri uscivano da una ruota di vetro, ogni volta annunciati da un suono di trombe. Allora tante popolane veneziane, tra una faccenda e l’altra, giocavano a tombola sulle tavole per il bucato. Le assi, sostenute da due sedie, servivano anche per mangiare.
Il nome: un’origine non così misteriosa
I tomboli sono rulli imbottiti per ricamare, antenati dei bussolotti delle estrazioni del lotto, e i bussolotti sono senz’altro lontani parenti della vecchia ruota di vetro veneziana. La dice già lunga il fatto che la più antica testimonianza del termine tombola a noi nota sia in un verbale degli Inquisitori di Stato veneziani (23 dicembre 1779). E se i napoletani avranno chiamato già prima il gioco così, non è difficile pensare ai panarielli di un tempo come a primitive urne cilindriche da agitare prima di ogni uso.
La paura dà i numeri
Le antiche definizioni della “tombola parlata” (il banditore, anziché il numero estratto, menziona la parola o la frase che lo simboleggia) sono state in diversi casi edulcorate o asciugate: il 63 era ‘a tena cavera e pelosa, ‘a sposa (“ce l’ha calda e pelosa, la sposa”); è diventato semplicemente ‘a sposa. Non mancano differenze da luogo a luogo: il 77 indica in molte parlate d’Italia le gambe delle donne, che sono “le gambe delle vecchie” a Tivoli, mentre i napoletani abbinano tradizionalmente il numero ai “diavoli” (‘e riavule).
Singolare il titolo di un famoso film di Totò: 47 morto che parla (1950). Per i partenopei è il 48 a rappresentare ‘o muorto che parla, laddove il 47 è semplicemente ‘o muorto. Il grande attore si ripeté. Nella scena di una pellicola del 1963 (Gli onorevoli), armato di megafono, perora la sua candidatura politica dalla finestra del bagno di casa: “Scegliete un numero solo che è tutto una garanzia, tutto un programma: 47”. La perfida replica dei condomini, quasi un coro: “Morto che parla!”.
di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani