«Guccini? Bah… per carità. Testi bellissimi, ma musica inesistente, come per tutti i cantautori». A chi non è mai capitato di sentire parole del genere? Soprattutto quando si ha a che fare con musicisti, musicologi, musicofili, musicanti et similia.

Il fatto è che già quando facciamo una domanda, quando in un discorso accompagniamo le parole con una certa enfasi, noi
non facciamo una cosa tanto diversa da chi scrive canzoniCapire l’anima di una melodia, capire che tipo di narratività c’è dietro a una certa successione di certi accordi per fare una bella canzone, sono cose di una difficoltà allucinante. Per fortuna. In tutto questo, nelle canzoni, nella loro narratività, nel loro sviluppo artistico, i testi non possono che intendersi con quella musica.

Vale per Guccini, per Drupi, per Battisti o per Pupo. E sarà ingenuo, quindi, dire che di una canzone ci piace il testo e non la musica. Ecco tutto.
Vediamo perché. 

Facciamo un esempio, della canzone che forse meglio ci fa capire le cose dette fino a qui; sicuramente di una delle più belle in assoluto proprio di Guccini: Incontro (in Radici, 1972).

 

Il brano parla di un incontro tra l’autore e una vecchia amica. Dopo un momento di quasi imbarazzo iniziale, comunque calmo e placido perché felice per il fatto di essersi rivisti, l’inesorabilità del tempo che è passato e passerà diventa protagonista della situazione:

 «E correndo mi incontrò lungo le scale,

quasi nulla mi sembrò cambiato in lei.

La tristezza poi ci avvolse come miele

per il tempo scivolato su noi due.»

Quelle dei primi due versi sono immagini descrittive e oggettive, inserite in una armonia “larga”, che vede un accordo per ogni battuta (con giro armonico IV-V-I-V). Questo fino all’impressionistica immagine del miele, una figurazione soggettiva che da lì in poi schiude quasi di colpo la porta della temporalità, esplosa nei versi seguenti:

 «Il sole che calava già

rosseggiava la città.»

Qui la calma descrittiva iniziale comincia a incrinarsi e l’armonia avvia la propria accelerazione frenetica, presentando due accordi per ogni battuta (con successione IV-V-I-III-VIm).

Sembra passare inosservata quest’accelerazione, ma è prova inequivocabile del sodalizio inscindibile tra testo e musica, tanto che non può che estremizzarsi: dopo aver descritto il tramonto, infatti, Guccini estremizza il disagio e la soggettività delle immagini, tanto che l’armonia raddoppia il proprio incedere, arrivando a quattro accordi per battuta nella prima parte del verso «Già nostra e ora straniera, incredibile e fredda»: la consapevolezza del tempo che passa è avvertita come un chiaro disagio nel non riconoscere una città un tempo sentita propria, ora “incredibile” – notare la preziosità etimologica –, in un verso, appunto, introdotto con dei rapidi accordi (con sequenza V-IIIm-V-IIIm), con una frenesia che allude al malessere. In sostanza: l’armonia raddoppia la velocità della successione degli accordi e poi la quadruplica, il tempo che passa inesorabile modifica il tempo della canzone quando dall’oggettività si passa alla soggettività, al lampo solo intuito di un ricordo fugace.

Questa frenesia, questi accordi rapidi, ricorreranno per tutto il pezzo nei luoghi simmetrici delle strofe (la canzone è fatta di cinque strofe tutte uguali musicalmente, e che quindi hanno tutte questo schema, tutte questa accelerazione), fino all’apoteosi quando accompagneranno uno dei più importanti concetti gucciniani, al passo «Le luci nel buio di case intraviste da un treno»: è esempio di un’immagine ricorrente di fugacità, perché è frequente nelle canzoni di Guccini la ricerca di un attimo rivelatore, un momento unico ed eccezionale che contiene una verità fulminea e irripetibile e che subito svanisce. È l’intuizione, contrapposta ai molti sbagli. Questo momento sembra avvicinarsi al miracolo della poesia.

Forse un mattino andando in un’aria di vetro di Montale, isola tra il nulla dietro le spalle e l’inganno consueto di fronte: è ciò che prova la bambina portoghese, ancora di Guccini (Canzone della bambina portoghese, Radici, 1972).

Incontro di Francesco Guccini secondo Graziano Fabrizi

Per dirla con uno dei principali studiosi di Guccini, Paolo Jachia, è «un’eco di tipiche situazioni esistenziali del Montale degli Ossi di seppia e delle Occasioni – “La vita che dà barlumi / è quella che sola tu scorgi” – e della sua disperata ricerca di un varco che possa davvero cambiare i confini di questa esistenza: “Oh l’orizzonte in fuga dove s’accende / rara la luce della petroliera! / Il varco è qui? (Ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende…) / Tu non ricordi la casa di questa / mia sera. E io non so chi va e chi resta”). Ma l’incanto è un attimo ed è già perso» (P. Jachia, Francesco Guccini. 40 anni di storie, romanzi, canzoni, Editori riuniti, 2002).

E, infatti, il finale di Incontro conferma impressioni e intuizioni rese da musica e testo, da testo in musica:

 «Siamo qualcosa che non resta

– frasi vuote nella testa –

e il cuore di simboli pieno.»

 Come diavolo si fa a separare queste parole da questa musica? E succede sempre così, anche quando la cosa non è così esplicita: un testo di una canzone vale solo quando è cantato, esiste solo nel canto, con quella melodia e con quegli accordi, con note in successione e sovrapposizione.

Il canto è un soffio, un’anima, ciò che meglio si avvicina alla vita. Senza il canto il testo è lettera morta.

Un testo, una voce, un motivo per cantare: questa è la canzone, altrimenti non è.

 

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