I custodi giudiziari degli impianti dell’area a caldo del siderurgico tarantino, avevano stimato una cifra equivalente alle somme che nel corso degli anni la società avrebbe risparmiato non adeguando gli impianti. Ora la sesta sezione penale ha accolto il ricorso presentato dai legali Coppi e Paliero, e ha disposto la restituzione alle holding di tutti i beni
Era stato uno dei sequestri più pesanti della storia italiana, ma ora le tasche dei Riva, sotto indagine per disastro ambientale nell’ambito dell’inchiesta Ilva, tornano piene. La Corte di Cassazione ha stabilito che i beni della holding Riva Fire, società proprietaria di Ilva spa, non andavano confiscati e ha annullato senza rinvio il decreto di sequestro confermato dal riesame nel giugno scorso dal tribunale del riesame di Taranto. Un decreto di sequestro per equivalente, firmato nel maggio scorso dal gip Patrizia Todisco su richiesta della procura ionica, che imponeva di mettere i sigilli a beni per 8,1 miliardi di euro.
Il provvedimento era stato impugnato dai legali delle società del Gruppo Riva e poche ore fa è arrivata la decisione della suprema corte che ha dato ragione al collegio difensivo degli industriali. La stima di oltre 8 miliardi era stata formulata dai custodi giudiziari Barbara Valenzano, Emanuela Laterza, Claudio Lofrumento e Mario Tagarelli come il costo totale degli interventi necessari al ripristino funzionale degli impianti dell’area a caldo per un possibile risanamento ambientale. La società Riva Fire, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, avrebbe ottenuto negli anni un notevole vantaggio economico attraverso quella che i magistrati definiscono una “consapevole omissione” degli interventi nell’Ilva per la protezione e salvaguardia dell’incolumità dell’ambiente, degli operai e dei cittadini di Taranto. In sostanza 8,1 miliardi erano i soldi che secondo l’accusa i Riva avrebbero risparmiato evitando di ammodernare gli impianti della fabbrica che secondo i periti del tribunale, oggi “genera malattia e morte”.
A firmare i ricorsi sono stati i legali Franco Coppi e Carlo Enrico Paliero, ma in un primo momento era stato anche Enrico Bondi, all’epoca amministratore delegato dell’Ilva, a volerlo. Dopo la nomina come commissario straordinario affidatogli dal governo Letta, Bondi ritirò l’istanza presentata per conto dell’Ilva per segnare una discontinuità con la gestione della famiglia Riva. Su richiesta del pool di inquirenti composto dal procuratore Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile e Remo Epifani, il gip Todisco aveva autorizzato il sequestro di denaro, conti correnti, quote societarie nella disponibilità della società Riva Fire, per le violazioni ambientali alla legge 231/01 che sancisce la responsabilità giuridica delle imprese per i reati commessi dai propri dirigenti.
In realtà finora, gli uomini della Guardia di finanza erano riusciti a individuare solo due miliardi rispetto agli otto richiesti. Dal sequestro sarebbero dovuti rimanere fuori i beni e le finanze riconducibili alla società di Ilva spa poiché il gip Todisco aveva infatti chiarito che i beni della società potevano essere aggrediti solo nel caso in cui non siano strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva nello stabilimento di Taranto. L’accusa nei confronti di Emilio, Nicola e Fabio Riva è di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Per Fabio Riva, inoltre, tra i capi di imputazione c’è anche quello di corruzione in atti giudiziari per aver versato la presunta tangente all’ex perito della procura Lorenzo Liberti per ammorbidire la perizia sull’Ilva. Tra le società indagate ci sono Ilva spa e Riva Fire spa, rispettivamente “controllata” e “controllante” ai cui vertici si sono succeduti negli anni proprio Emilio, Fabio e Nicola Riva.
“Il dissequestro di 8,1 miliardi delle società della famiglia Riva è una pessima notizia per il futuro di Taranto”, secondo Angelo Bonelli (Verdi) che aggiunge: “Quel sequestro era una polizza sulla vita per la città e per la salute dei cittadini”. Di parere opposto Antonio Gozzi, presidente di Federacciai: “Accogliamo con grande soddisfazione la sentenza della Corte di Cassazione che, dopo lunghi mesi di unilateralità e accanimento giudiziario nei confronti della famiglia Riva, ha finalmente giudicato con pieno spirito di terzietà l’intera vicenda”.