Oramai ci siamo abituati, due o tre volte l’anno, a seconda di come si comportano le altre “canaglie” (ridotte oramai all’Iran, dopo la caduta di Saddam e Gheddafi e la morte di Chavez) e a variabili imprevedibili quanto mediaticamente succulente come guerre vere e calamità naturali, ai titoloni sulla Corea del Nord che tremare il mondo. Prima con la minaccia nucleare, poi con i suoi razzi-giocattolo che finiscono regolarmente in mare pochi minuti dopo il loro lancio, e ora con la presunta “ondata” di purghe lanciata dall’ultimo (si spera) rampollo della prima e unica (si spera) dinastia comunista, il giovane Kim Jong-un. Che probabilmente a questa per ora singola purga è stato costretto dai militari che lo tengono in ostaggio e che rimpiange la Svizzera, dove ha a lungo soggiornato e studiato in incognito, e dove la sera, sempre in incognito, riusciva a svignarsela dal collegio per andare ai festival pop o anche solo in discoteca. Sicuramente più divertente, penserà ora che è costretto a fare lo “statista” per conto terzi, che far arrestare, torturare e giustiziare uno zio filocinese e rompiballe e vivere, a sua volta, nel terrore di essere avvelenato.
Ma al di là dei titoloni di giornale e delle aperture dei tg, chi ha paura della Corea del Nord? Che minaccia reale costituisce, per il mondo, al di là delle terribili condizioni di povertà e sofferenza – probabilmente neanche percepite nelle loro dimensioni dai suoi cittadini – che impone al suo indomito, orgogliosissimo e per certi versi eroico, popolo? Stesso discorso vale per la Cina, altro paese che come la Corea ha certamente subito più aggressioni, nella storia, di quante ne abbia perpetrate e nei cui confronti, anziché riconoscenza per essere l’unica economia in costante crescita, c’è una sorta di “gufaggio” planetario: quando imploderà? Quando esploderà? Quando comincerà ad invadere i paesi vicini? O bombarderà quelli lontani? Quando mai si ribellerà, il popolo? Non bisogna essere dei sinologi, per capire che questo tipo di ribellione, di insurrezione popolare in Cina non ci sarà. Per un semplice motivo: l’economia cresce, e la gente, sempre più gente, sta sempre meglio.
Poca attenzione, non si sa quanto colposa o dolosa, si registra invece per quanto sta accadendo in Giappone. Dove la gente, come da noi, sta invece sempre peggio. E non solo dal punto di vista economico. Un paese, il Giappone, che nel recente passato – e non certo per colpa dei suoi cittadini, la cui unica colpa è forse quella di essere troppo ubbidienti, educati e creduloni, quanto per una classe dirigente generalmente ignorante, arrogante e corrotta, sopravvissuta alla tragedia della guerra e rimasta sostanzialmente al potere – ha certamente mostrato maggiore, come dire, efficace aggressività. Gli americani “liberatori”, a suo tempo, l’avevano ben capito. E, pur risparmiando, Sua Maestà Hirohito e l’involucro imperiale, ne avevano ridotto notevolmente il “peso” simbolico e istituzionale, incarcerando o comunque allontanando dal potere pressoché tutta la classe dirigente (politica, militare e industriale) e soprattutto imponendo una Costituzione pacifista “blindata”. Il cui articolo 9 vieta al Giappone il possesso di esercito, aviazione e marina militare e non solo ripudia la guerra (come fanno pressoché tutte le moderne Costituzioni) come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, ma rinuncia addirittura al diritto di belligeranza. Il che, nell’interpretazione più rigorosa e per molti anni condivisa dalla maggior parte degli studiosi, anche locali, significa che il Giappone, ancorchè provocato e financo “invaso”, non potrebbe/dovrebbe reagire.
E infatti, sin dal 1952, Giappone e Stati Uniti sono legati da un Patto di Sicurezza (profondamente modificato nel 1960) che prevede l’immediato intervento Usa in caso di aggressione subita dal Giappone. Cose che oramai appartengono al passato, anche se la Costituzione, di fatto, è ancora vigente. Nel corso degli anni il Giappone, con il tacito assenso se non la spinta degli Stati Uniti, non solo si è dotato delle cosiddette “forze di autodifesa”, 250 mila uomini perfettamente addestrati e ancor meglio armati, non solo li ha mandati all’estero in operazioni di “pace” quantomeno controverse (Iraq) ma è arrivato a darsi un bilancio militare che è oramai il quarto del mondo, dopo Usa, Cina e Russia e prima di tutti i paesi europei (Inghilterra, Francia, Germania e Italia): oltre 60 miliardi di dollari, quasi il doppio di quello italiano, che pur rappresenta il 2% del Pil, contro lo “storico” limite dell’1% finora rispettato dal Giappone.
Ma al di là dell’interessata soddisfazione dei paesi produttori di armamenti (Italia compresa, che spera di aumentare le sue esportazioni di sistemi integrati e tecnologie varie) e dei baldanzosi annunci del nuovo ministro della difesa Itsunori Onodera, che nei giorni scorsi ha provato a spiegare come l’aumento del bilancio militare (nonostante il debito pubblico abbia oramai superato il 240% del Pil, il più alto del mondo industrializzato ed il deficit commerciale sia aumentato del 35%) e l’acquisto di incrociatori, sommergibili, mezzi anfibi e persino droni rientrino nel concetto di “pacifismo proattivo”, quello che più preoccupa è la resurrezione del nazionalismo. A tutti i livelli: mediatici, politici, sociali e perfino religiosi. C’è l’attuale, pressoché sconosciuto all’estero, ministro della Pubblica istruzione, Hakubun Shimomura, ad esempio, che dietro la sua voce calda, bonaria e avvolgente, da maestro elementare, sta riesumando, con grande efficacia, slogan, liturgie e concetti che si sperava fossero per sempre sepolti.
“Il problema del Giappone è la mancanza di autostima dei nostri ragazzi – ha dichiarato di recente – bisogna assolutamente correre ai ripari”. La ricetta di Shimomura, approvata dal governo e immediatamente applicata nella maggior parte delle scuole pubbliche (nonostante non sia ancora legge) è quella di riesumare materie come “etica, morale ed educazione patriottica”, imporre l’alzabandiera all’inizio e al termine delle lezioni, e lanciare l’ennesima revisione dei testi di storia, facendo sparire tutti i riferimenti negativi, gli appena affiorati sensi di colpa per le passate nefandezze e l’incitamento a sostenere le varie e più o meno legittime rivendicazioni territoriali che il Giappone continua ad avere con i suoi vicini: Russia, Cina, Corea. La riforma “scolastica” non rappresenta che il primo foglio, il primo strato di un più vasto programma di “rinascita spirituale” che l’attuale premier Shinzo Abe, ossessionato dal suo personale pedigree e dal tentativo di riabilitare la figura dei suoi avi (è il nipote di Nobusuke Kishi, uno dei “criminali di guerra” prima imprigionati e poi improvvisamente rilasciati dagli Usa, che gli consentirono addirittura di diventare premier del Giappone, negli anni ’60) e (mal)consigliato da una serie di vecchi e nuovi ultranazioanlisti ha più volte annunciato ed iniziato a realizzare.
Legge “bavaglio”, revisione costituzionale (finalmente possibile, con gli attuali numeri in parlamento), nuovo ruolo per l’imperatore (che risalirebbe un paio di scalini, senza peraltro riacquisire la pretesa divinità). Ma soprattutto un nuovo e autorevolissimo status per il tempio Yasukuni, cattedrale dello Shintoismo “di Stato” e pomo della discordia internazionale per via della presenza, tra le ceneri di migliaia di poveri e spesso ignoti soldati morti spesso loro malgrado per la patria, di “spiriti” un tantino più imbarazzanti, quelli di alcuni (noti) criminali di guerra. Non è un’operazione da poco: se Abe e Shimomura – tutti regolarmente iscritti alla Shinto Seiji Giin Renmei (letteralmente: Alleanza Parlamentari Shintoisti) una specie di P2 cui risultano iscritti 240 parlamentari e 16 degli attuali 19 ministri, e di cui Abe è da molti anni il segretario generale – riusciranno nel loro intento – e tutto lo lascia pensare – sarà bene tenere di nuovo gli occhi ben puntati sul Giappone. Ma non per la sua economia in presunta (sin qui) ripresa, bensì per il pericoloso “ritorno al futuro” che questo neo-shintoismo di stato sta imponendo, tra la disattenzione generale in patria e all’estero, ad un paese ed un popolo che ha già pagato abbastanza l’arrogante cialtroneria di certi suoi leader.