Brutto Natale per il Pubblico Ministero della Corte Penale Internazionale dell’Aja (Icc), Fatou Bensouda, costretta nell’ultima settimana di lavori prima della pausa natalizia a informare il mondo intero che il processo più importante della breve storia dell’Icc, quello al primo ministro in carica Uhuru Kenyatta e al suo vice Williamo Ruto, potrebbe essere ad un passo dall’epilogo; attraverso un comunicato stampa, l’ufficio della Pubblica Accusa, ha fatto sapere che il recente passo indietro di due testimoni chiave, ha indebolito l’impianto accusatorio e rende ora necessario un ulteriore approfondimento sul caso. Una nota della Pubblica Accusa, sottolinea che il passo indietro del testimone P-0012, che ha sostenuto in fase predibattimentale di essere stato testimone oculare della riunione segreta presso la State House di Nairobi, ha privato il Pm di prove solide; secondo il racconto, i due uomini di stato africani alla sbarra, avrebbero pianificato in quell’incontro gli atti di violenza contro i supporter dell’Odm, Orange Democratic Movement, seguiti alle elezioni politiche del 2007.
La decisione di prendere tempo per studiare le carte (e magari trovare altri testimoni) è stata una doccia gelata per vittime e parenti delle vittime di quei giorni di violenza. Human Rights Watch ha commentato la richiesta della Pm Bensouda come una “notizia scioccante per coloro che guardavano all’Icc come all’unica possibilità di avere giustizia per le vittime keniote”.
Ma infondo si tratta di uno sviluppo atteso, dopo la recente sessione degli Stati Parte, l’assemblea delle nazioni firmatarie dello Statuto di Roma, dove la questione ha tenuto banco nelle discussioni pubbliche (e certamente di più in quelle dietro le quinte); allora, la delegazione keniota aveva chiesto insistentemente un rinvio di un anno e proposto di sospendere i processi per le alte cariche, almeno fino al termine del loro incarico istituzionale. Nessuna delle due opzioni si è concretizzata ma l’incessante opera di lobbying degli ultimi mesi del paese africano ha dato i suoi frutti e se la Bensouda chiede tempo fino a Maggio, chiudendo di fatto sulla data di inizio del procedimento fissata il 5 Febbraio – l’ultima di una lista lunga di aggiornamenti e rinvii – non è detto che i giudici non si arrendano, mettendo la parola fine sul processo del “riscatto” per la Corte dell’Aja e forse un’ipoteca stessa sul suo futuro.
La storia del processo a Kenyatta è un intreccio di politica “interna” e pressioni “esterne” all’operato del primo tribunale internazionale permanente per crimini contro l’umanità; caso istruito dall’ex -contestatissimo- Pm Ocampo è diventato un labirinto, all’indomani della vittoria elettorale alle politiche di quest’anno del tandem di imputati Kenyatta-Ruto. Si può processare il vertice politico di uno stato sovrano? Per lo Statuto di Roma, firmato anche da Nairobi si, ma la real-politik ed alcune tragiche (ma fortunatisssime, per gli imputati) circostanze, come l’attentato al centro commerciale della capitale keniota dello scorso settembre e la partita multilaterale giocate tra Europa, potenze economiche emergenti ed Unione Africana, sono forse riuscite a gettare acqua sul fuoco della giustizia internazionale.
Giustizia che sembrava solo poco tempo fa ad un passo da un risultato storico (l’aver portato un capo di governo in carica alla sbarra per rispondere di crimini contro l’umanità e l’essere riusciti cosi a cementare anche il principio di “accountability”) ma rischia ora, di diventare una Caporetto per la Corte. Senza il processo Kenyatta-Ruto, il mastodonte dell’Aja, che è costato fino ad oggi oltre un miliardo di dollari portando a sentenza un solo processo, rischia di affondare nelle sabbie mobili della politica.
A febbraio arriverà la sentenza per il processo Katanga, relativo ai genocidi nella Repubblica Democratica del Congo. E dal Congo viene anche Thomas Lubanga, primo condannato dall’Aja. Due importani procedimenti, sia chiaro, ma a carico di due figure minori rispetto ai leader kenioti o al presidente sudanese Al-Bashir che di presentarsi all’Aja non ci pensa proprio, come non ci pensano proprio le autorità libiche di consegnare il figlio del defunto ex rais Gaddafi.