Dopo ben cinque anni dall’inizio della crisi che stava facendo saltare in aria gli equilibri di tutta la finanza globale, sono finalmente arrivate in porto le prime decisioni importanti, sia in America che in Europa, relative alle nuove regole che dovrebbero mettere al riparo il sistema finanziario globale dal ricadere nella stessa pericolosa situazione del 2008.

L’uso del condizionale è perfettamente appropriato in questo caso, infatti, al di là delle vistose affermazioni fatte in questi giorni dai titolari dei dicasteri economici e dai capi delle due principali superpotenze economiche del globo, entrando appena un poco nel merito dei provvedimenti approvati, ci si accorge che non c’è quasi niente di sostanziale.

E ciò è tanto più vero per l’Europa che per gli Stati Uniti. Infatti le regole adottate non hanno niente in comune, ognuno va per la sua strada, ma negli Usa qualcosina, almeno nelle intenzioni, si vede, in Europa invece i provvedimenti appaiono purtroppo soltanto, ai fini del cittadino e del risparmiatore, come una solenne presa in giro.

Vediamoli dunque un pochino più in dettaglio questi provvedimenti normativi e legislativi (la materia è alquanto “barbosa”, ma da queste cose dipende il futuro di centinaia di milioni di persone, conviene quindi a tutti scoprire cosa “bolle in pentola” per sapere chi e cosa scegliere quando si va a votare).

Vediamo la riforma del sistema americano per prima. La legge di riforma, denominata “Dodd-Frank” dal cognome dei suoi due relatori, risale alla tarda primavera del 2010 (quando ancora l’amministrazione Obama aveva la maggioranza in entrambi i rami del Congresso), ma la legge rimandava alle Agenzie che ne avrebbero poi seguito l’andamento la definizione delle norme dettagliate, quindi, anche per la forte opposizione del partito repubblicano, forte avversario politico dell’amministrazione Obama, ci sono voluti altri tre anni per arrivare ad una stesura di norme presuntivamente capaci di impedire alle grandi banche l’accumulo disordinato e pericoloso di quelle operazioni sui C.D.O. (Collateralized Debt Obligation) che offorno alle banche una immensa fonte di guadagno ma anche una enorme possibilità di rischio di default qundo il mercato inverte la rotta in modo deciso.

Ecco dunque che nella scorsa settimana ben 5 importanti istituzioni americane si sono riunite per definire finalmente queste regole. A premere con forza sulle Agenzie per il raggiungimento di un accordo è stato il Segretario al Tesoro Jacob J. Lew che ha voluto così mantenere una promessa fatta ad Obama che la Dodd-Frank sarebbe diventata operativa entro l’anno. Le cinque agenzie federali sono: la Federal Reserve, la Securities and Exchange Commissionla Commodity Futures Trading CommissionlaFederal Deposit Insurance Corporation e la Comptroller of the Currency .

Benché non perfettamente allineate su ciò che avrebbero consentito di fare alle banche e ciò che avrebbero invece proibito, le 5 agenzie sono arrivate finalmente all’accordo di proibire quello che viene definito come “proprietary trading” ovvero l’utilizzo dei fondi depositati dai clienti per fare operazioni speculative non specificamente ordinate dal cliente, ma su iniziativa della banca. Naturalmente l’esatta definizione di ciò che è o che non è  “proprietary trading” è variamente e fortemente contestata. I regolatori, in maggioranza, e con in testa Gary Gensler, responsabile della Commodity Futures Trading Commission, vorrebbero includere qualunque operazione C.D.O. fatta coi depositi della banca sotto questa definizione, mentre gli altri (anche sotto la fortissima spinta delle lobbies pro banche) vorrebbero lasciare alle banche molto più margine per stabilire quali depositi rientrano e quali no.
In particolare è stato necessario spaccare il capello in 4 per definire quando un deposito, su cui il suo titolare ha autorizzato la banca a fare quel tipo di operazioni, sia da includere oppure no nel divieto. Se il tempo e la modalità è specificamente dettagliata, si può fare, altrimenti prevale l’orientamento a includerle in quelle non autorizzate. Un compromesso è stato infine raggiunto anche per includere nelel operzione consentite i TrUPs (trust-preferred securities), cioè dei C.D.O. confezionati con titoli sicuri (ovvero non classificati “subprime”).

La discussione adesso verte sull’interpretazione esatta di queste regole e, naturalmente, anche con l’aiuto di esperti lobbisti, si ritornerà a spaccare il capello in 4 per confutare le decisioni delle Agenzie, chiamando in causa anche, se occorre, la magistratura competente. Le banche hanno tempo fino al 21 luglio 2015 per disfarsi dei depositi che possono essere qualificati come “proprietary trading” (salvo dilazioni specifiche che verrebbero concesse dalla Federal Reserve).

E’ da notare (direi con particolare attenzione da parte dei paesi europei) che le regole della “Volcker Rule” consentono alle banche americane di fare “proprietary trading” sui depositi in obbligazioni, titoli del Tesoro e persino sui municipal bonds. le obbligazioni dei comuni grandi e piccoli americani. E’ consentita inoltre alle affiliate estere delle banche americane, senza particolari limitazioni, la contrattazione sui titoli emessi dagli Stati Esteri.

Vista la “fame” di guadagno che, con queste nuove regole, si scatenerà in tutte le grandi banche americane, c’è da aspettarsi perciò molto presto un intensificarsi delle operazioni sui mercati esteri e in particolare sul debito pubblico degli Stati sovrani (europei in primis, essendo i meno protetti).

Negli Usa infatti la tenuta di un conto corrente ha costo praticamente uguale a zero (varia da Stato a Stato, in Texas è zero), quindi la maggior parte dei guadagni le banche lo fanno sulle operazioni di “trading”. 

Per quanto riguarda l’Unione Europea, la riforma annunciata la scorsa settimana durante l’Ecofin, (vedasi anche il mio precedente articolo: “Lavoro e imprese, basta con la finanza creativa”), qualcuno può pensare davvero che l’accordo preso all’Ecofin possa risolvere (per i cittadini, non per le banche) il rischio di default collegato alle operazioni sui C.D.O.? La creazione dell’Unione Bancaria (che è per la verità solo la creazione di un fondo comune “salva-banche”) non cambierà praticamente nulla per il cittadino comune e per il piccolo risparmiatore, in quanto anticipa semplicemente (attraverso un probabilissimo inasprimento dei costi sulle operazioni bancarie) quello che i depositanti pagheranno alle banche, le quali invece continueranno ad essere libere di fare ciò che vogliono.  Quindi se la banca cadrà in disgrazia, verrà salvata dal fondo salva-banche (già pagato con le spese sui conti bancari dai comuni cittadini e dai depositanti) e se la banca farà utili, a guadagnarci saranno sempre i soliti con tanti soldi.

Peggio quindi del “too big to fail” perché almeno con l’intervento dello Stato (negli Usa) le banche hanno preso a prestito del denaro che è poi stato restituito allo Stato con tanto di interessi. Col fondo salva-banche invece i soldi che le banche in qualche modo raccoglieranno, svaniranno, e non verranno più restituiti a nessuno.     

Per concludere quindi, si può tranquillamnte sostenere che il comune cittadino e il piccolo risparmiatore hanno nettamente perso la battaglia contro le grandi banche al fine di limitare le rischiose operazioni speculative che hanno portato al collasso del 2008 e alla susseguente e perdurante crisi.

In America almeno ci hanno provato a fare qualcosa, l’Europa invece dorme su quattro guanciali.
E la prossima crisi, che non tarderà molto ad arrivare, rischia di riverlarci che i provvedimenti presi non sono stati sufficienti..

 

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