Personaggio simbolo della città è morto a 69 anni nella casa di riposo Vittorio Emanuele dove era da tempo ricoverato. Intorno a lui tante storie e leggende e un legame molto forte con i suoi concittadini
Quando un barbone muore sono poche le lacrime versate. Chi lo amava, di solito, le aveva già finite da tempo. Chi non lo sopportava, sicuramente, ha già qualcosa di meglio a cui pensare. E l’addio a Roberto Pezza, per tutti semplicemente “il Pezza”, non ha fatto eccezione. Solo che, alla notizia della sua scomparsa, le poche lacrime rimaste sono state travolte dagli innumerevoli sorrisi che i tanti hanno sentito di esprimere (soprattutto in rete, sulla sua pagina Facebook e in altre nate al momento) alla memoria del “clochard” per eccellenza di Piacenza.
Morto a 69 anni nella casa di riposo Vittorio Emanuele dove era da tempo ricoverato, non era un’eccellenza piacentina, “il Pezza”. Non aveva nulla di leggendario alle spalle che lo avesse portato sulla strada, come solitamente si cerca di costruire intorno alla figura di un senzatetto, ancor di più in una città borghese come la Primogenita, storicamente disabituata agli homeless e all’accattonaggio. La sua particolarità era solo quella, come diceva, di non essersi adattato alla società in generale e al vantato sistema di accoglienza piacentino.
Infatti è stato difficile, per gli organi di informazione, salutarlo senza retorica: “Il barbone buono”, “Addio all’uomo della strada”, oppure al “Clochard simbolo di Piacenza” sono solo alcuni dei titoli utilizzati. Se avesse potuto leggerli, c’è chi dice si sarebbe fatto una grassa risata “catarrosa” e avrebbe detto, rigorosamente in dialetto: “Ma dì mia ad luchàdi” (“Ma non dite stupidaggini).
Non lo sapremo mai. Quel che possiamo riportare è che Roberto Pezza, dopo una vita sulla strada (o sotto le stelle per i romantici) ha intrapreso il viaggio più lungo a pochi giorni dal Natale. In un remoto passato aveva lavorato come saldatore. Poi, un bel giorno, si dice per un amore finito male, o per anticonformismo venendo da una famiglia facoltosa, o perché semplicemente matto, era finito a riempire un carrello della spesa con gli scarti delle persone “normali” e a dormire agli angoli della città. Dove capitava, con alcuni punti prediletti.
Come detto, però, sono molti i ricordi dei piacentini per quel barbone che era stato dato per morto più volte e, invece, veniva “avvistato” regolarmente essersi spostato per un periodo in un’altra zona di Piacenza. Tanto che era diventato un gioco, anche un po’ crudele, quello di fargli o farsi una foto e pubblicarla in rete (negli ultimi anni qualcuno gli gestiva addirittura la pagina Facebook “io sono amico di Pezza”) per testimoniare che era ancora in circolazione.
Non era un violento, tutt’altro. Le sue rare richieste ai passanti si limitavano a una sigaretta o a qualche spicciolo. E al rifiuto, borbottava e tornava al suo silenzio. Mentre non erano mancati i casi in cui, dopo essere stato borseggiato dei pochi spiccioli che possedeva da qualche malintenzionato, erano stati gli stessi cittadini a cercare di difenderlo.
Il punto più alto di celebrità, il “vagabondo” piacentino lo ebbe però nel 2004, quando un’azienda lo scelse come testimonial per la sua campagna pubblicitaria. Le mani lerce, i vestiti sbrindellati, la barba lunga e la cuffia improbabile, stridevano rispetto alla poltroncina bordeaux sulla quale venne seduto all’interno di una cucina all’ultima moda. Era stata l’idea di marketing del proprietario dello show room, che se lo trovava ogni mattina a dormire davanti all’ingresso e non poteva credere di potersi “accaparrare un barbone così verosimile” a pochi euro (venti per la liberatoria, raccontano le cronache).
“Pezza era un barbone. Un barbone come si deve. Non era un artista di strada (i suoi quadri erano spaventosi) e non era uno scrittore (Walt Whitman invece lo era)…Mai come nel caso di Pezza la retorica e la pietà post mortem sono inutili. Sono un insulto a lui e ai suoi cartoni” ha scritto “La Batusa”, il blog di Piacenza più irriverente che, in questo caso, pare aver colto in pieno lo spirito di quello che in gergo giornalistico viene definito “coccodrillo”.
E allora perché ricordare una persona del genere, degenerata per i più e poco degna di rispetto per quasi tutti gli altri? “Nessuno va perduto. L’amore del Signore abbraccia e salva tutti” è la risposta religiosa che ha dato il parroco, don Pio Ferrari, durante la cerimonia funebre svoltasi nella casa di riposto Vittorio Emanule, dov’era stato ricoverato non senza difficoltà per le sue resistenze ad avere un tetto sulla testa, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute.
Ma sembra non bastare. Perché forse Roberto Pezza, al di là di tante altre, ha avuto la sfortuna di essere vissuto in un tempo in cui non esistono più i poeti o hanno scarso valore sociale. “Sono dentro a un fosso. E in mezzo all’acqua sporca godo queste stelle, questa vita è corta, è scritto sulla pelle” cantava Piero Ciampi ne “Il vino”, nel descrivere la vita di strada e, nello specifico, una sbornia colossale.
Ecco, se Roberto Pezza ha avuto un pregio dopo la sua morte, è stato quello di riportare i molti che lo hanno conosciuto, anche solo di sfuggita, per un momento con i piedi per terra e con il naso all’insù. E a tornare ad apprezzare, per un istante, quelle stelle che lui ha visto tante volte da dentro un fosso lungo una vita.