Se dal crac di Parmalat sono passati dieci anni, per uno dei suoi protagonisti, Enrico Bondi, il contesto lavorativo non sembra poi essere così diverso. Non ci sono più gli scontri legali con le banche americane per racimolare 2 miliardi e 160 milioni, gli stessi cioè che sono poi beffardamente finiti nelle casse della francese Lactalis che nel 2011 ha comprato l’azienda di Collecchio. C’è però la causa risarcitoria, depositata a Milano, dall’Ilva di Taranto guidata da Bondi contro la Riva Fire con cui il 79enne commissario aretino spera di poter ricavare 484 milioni di euro.

Una somma che Bondi stima di poter incassare dimostrando che il gruppo dell’acciaio è stato utilizzato dalla famiglia Riva come un bancomat per ben diciassette anni. Secondo il commissario, infatti, è dal 1995 che i proprietari delle acciaierie hanno sottratto al gruppo siderurgico con una ingente emorragia di liquidità assorbita dalla capogruppo attraverso un contratto di “assistenza tecnica”. Una triste storia quella dell’Ilva di Taranto che ha tante affinità con altre vicende delicate gestite dall’ex commissario Parmalat che il 10 ottobre scorso è stato rinviato a giudizio per falsa testimonianza nell’ambito del presunto dossieraggio illegale di Telecom Italia per la vicenda della microspia trovata sulla sua auto quando era diventato da poche settimane amministratore delegato del gruppo di telecomunicazioni.

Le aziende in difficoltà sono del resto la specialità di Bondi che solo per un breve periodo si è dedicato anche alla cosa pubblica, con l’ex premier Mario Monti che lo ha chiamato a diventare commissario della spending review con il decreto legge 52/2012 pubblicato l’8 maggio dello scorso anno in Gazzetta Ufficiale. Nella norma era prevista un’indennità lorda non superiore ai 170mila euro per un incarico fino al 30 aprile 2013. Una cifra tutto sommato contenuta per un incarico di tale importanza e responsabilità, ma solo un tassello del costo effettivo della spending review che, come testimonia la ragioneria dello Stato, alla voce Politiche economiche di bilancio nel 2013, con riferimento all’analisi, “monitoraggio e controllo della finanza pubblica”, nel periodo Bondi è costata alle casse pubbliche 880mila euro contro poco più di 200mila euro previsti per l’anno successivo. La somma è comunque ben lontana dai circa 33 milioni di euro che il commissario straordinario di Parmalat ha incassato in 26 mesi a Collecchio. Compensi poi scesi a 1,5 milioni del 2010 quando il passaggio ad amministratore delegato della nuova Parmalat era consolidato, fino ad arrivare alla rinuncia alla buonuscita che Il Sole 24 Ore battezzò comunque come “francescana” con un consiglio di amministrazione 2011 che complessivamente aveva incassato 1,6 milioni.

Ad ogni modo l’avventura di Bondi alla spending review dura poco ed è tra le sue più brevi esperienze professionali dopo la consulenza lampo al capezzale del San Raffaele di don Verzè su incarico del Vaticano nell’estate 2011. Il commissario abbandona le forbici dello Stato il 7 gennaio 2013 insieme all’incarico di commissario ad acta per la Sanità della Regione Lazio durato un paio di mesi. La decisione di uscire di scena arriva dopo che l’allora segretario Pd, Pierluigi Bersani, ne contesta il doppio ruolo come commissario pubblico alla riduzione della spesa e “selezionatore” dei curricula per la lista Scelta Civica dello stesso Monti. Non passano neanche sei mesi, che il 4 giugno Bondi viene chiamato al capezzale dell’Ilva dal governo di Enrico Letta con un incarico di 36 mesi i cui oneri sono tutti a carico dell’azienda come avviene in questi casi. 

Di strada e di soldi, insomma, ne ha fatta il manager che, giovane chimico, venne assunto nel ’57 alla Montedison prima di passare al settore aerospaziale e, poi, di arrivare in Fiat e alla Gilardini dove stringe amicizia con Cesare Romiti. Da li l’incontro con il dominus di Mediobanca, Enrico Cuccia, che gli affida la prima azienda in crisi, la Torviscosa, storica fabbrica di cellulosa che rischia il crac. Un affare che risanato vale ben più del compenso per il lavoro svolto. Perché sul campo Bondi si conquista la fiducia di Cuccia e del suo salotto buono. Con la prova del fuoco che arriva nel 1993 con l’ondata Mani pulite che rischia di affossare il gigante Ferruzzi-Montedison. Nell’ufficio del pm Francesco Greco, Bondi si presenta con i suoi fidati consulenti Guido Angiolini e Umberto Tracanella. Presidente è Guido Rossi, che non sopporta il carattere ruvido del manager. Ma alla fine è l’ “uomo con la scusa” che ha la meglio fra i due e festeggia la ristrutturazione, senza fallimento, di 31mila miliardi di lire di debiti lordi.

Anni difficili quelli post-Mani pulite cui segue la breve esperienza in Telecom Italia nel 2001 prima dell’incarico di amministratore delegato nella Premafin della famiglia Ligresti dove pure si trattiene poco. Gianni Agnelli, in fin di vita, lo vorrebbe alla Fiat, ma è il banchiere Cesare Geronzi a mettersi di traverso perché Bondi ha già lasciato intuire che non mancheranno tagli lacrime e sangue per rimettere i conti in ordine. Così nel 2003 approda al gruppo dell’acciaio Lucchini dove conosce il numero uno Luigi, in passato presidente Montedison proprio mentre Bondi ricopriva l’incarico di amministratore delegato. La ristrutturazione non è facile, ma anche in questo caso Bondi riesce favorendo poi la vendita ai russi della Servestal. Di qui l’approdo nella Parmalat spolpata dalla famiglia Tanzi. Una mucca che però anche lui ha munto abbondantemente e che, tanto quanto i risparmiatori, ha goduto ben poco del denaro recuperato da banche e revisori.

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