Il più classico degli esercizi mentali di fine anno è tracciare un bilancio, mettere da un lato le cose migliori e dall’altro le peggiori. Vale in ogni campo, anche in quello ormai inflazionatissimo delle serie televisive. Stilare una classifica delle serie migliori è impresa davvero ardua, visto che l’offerta è diventata così vasta che qualcosa durante l’anno l’abbiamo persa. Ma vogliamo tentare di tracciare un bilancio del 2013 della serialità televisiva, ovviamente parziale e dettato esclusivamente dal nostro gusto personale.
Avevamo pensato di fare lo stesso con i prodotti italiani, ma a parte Una grande famiglia e l’esperimento crossmediale di Una mamma imperfetta, il quadro è desolante, quindi abbiamo desistito per carità di patria.
1. Breaking Bad
Una delle serie televisive più avvincenti di tutti i tempi ha chiuso i battenti, lasciando orfani e disperati milioni di fan in giro per il mondo. Breaking Bad deve la sua fortuna a una sceneggiatura di altissimo livello e all’interpretazione sontuosa di Bryan Cranston, splendido Walter White, sospeso tra la frustrazione per una vita mediocre e l’attività di “cuoco” di metanfetamine.
Il network via cavo AMC ha deciso di chiudere nel momento di massimo splendore, dopo solo cinque serie. Scelta dolorosa per noi fan, ma intelligente e oculata. Per una volta, non si è deciso di spremere una serie fino a svuotarla di ogni appeal come è successo troppe volte in passato. In Italia, Breaking Bad non è stata valorizzata come meritava e per questo rimane un gioiello conosciuto solo dai veri aficionados, che spesso usano lo streaming in lingua originale per sopperire alle mancanze dei nostri palinsesti. Chi non ha seguito le imprese rocambolesche di Walter White, dunque, può mettersi in pari e godersi una serie che resterà nella storia della televisione.
2. The Walking Dead
L’epopea post apocalittica di The Walking Dead è molto di più di una semplice storia di zombie e cervelli putrefatti. È, piuttosto, la narrazione avvincente delle debolezze umane, dell’istinto di sopravvivenza, del “mors tua vita mea” che sta in piedi alla perfezione anche senza contagio globale e zombie barcollanti.
Le vicende di Rick e dei suoi compagni di sventura, tratte dall’omonima graphic novel, hanno conquistato il mondo proprio perché sono raccontate con il solo pretesto del virus ma poi si dipanano tra scontri, amori, scelte difficili e drammi personali. Ma nemmeno un secondo è concesso alla deriva patetica, nemmeno nei momenti di massima tragedia. Anche le morti più dolorose, soprattutto per noi spettatori, sono raccontate con un cinismo umanissimo, così come gli scontri tra personaggi dalle personalità tratteggiate con una perizia da grande letteratura.
The Walking Dead, giunta alla quarta stagione, è riuscita a usare il genere horror per diventare qualcosa di molto più importante e ambizioso. È il racconto di una umanità smarrita che tenta di sopravvivere ad ogni costo. E a volte fallisce, come è normale che sia.
3. Homeland
Quella pazza di Carrie, con il suo disturbo bipolare controllato a fatica, non riusciamo proprio a odiarla. Nonostante tutto, nonostante le sue debolezze che trasformano una trama già intricata e difficile in un casino immenso.
È stata una stagione particolare, di transizione, con pochi acuti, ma che si è conclusa con un finale addirittura troppo sconvolgente per lo spettatore. Anche nel caso di Homeland, il filo narrativo della spy story è solo un pretesto per raccontare altro: un’America ambigua, corrotta e pronta a tutto, che mette la ragion di Stato prima di ogni altra cosa. Persino Saul, personaggio positivo e amatissimo dal pubblico, deve spesso piegarsi alla necessità, dimenticando valori e principi morali in nome di un ideale supremo.
Carrie e Brody, tra intrighi internazionali e storie d’amore, si perdono e poi si ritrovano, sempre sul filo dell’ambiguità. Non si capisce mai chi è il buono e chi il cattivo, e addirittura alla fine la distinzione diventa superflua, perché nessuno è totalmente santo, così come nessuno è totalmente diavolo. Umani, quello sì, e lo dimostrano ad ogni puntata. Preparate i fazzoletti, perché il finale lascia senza fiato.
4. American Horror Story: Coven
Ryan Murphy si è imposto sulla scena televisiva mondiale con Glee, un prodotto leggero e scanzonato (che però ormai ha perso la carica innovativa delle prime stagioni e andrebbe chiuso d’imperio). Poi, però, raggiunta la notorietà, il gaio e colorato Murphy si è trasformato nel cupissimo ideatore di American Horror Story, spaventosa serie horror con un cast da urlo, che ogni anno cambia ambientazione e trama. Dopo le vicende dell’ospedale psichiatrico della scorsa stagione, quest’anno lo spettatore è catapultato in una New Orleans magica che più magica non si può, tra streghe, voodoo, demoni di ogni genere e mostri sanguinari provenienti da un passato oscuro. Rispetto allo scorso anno, c’è qualche passo indietro. La svolta teen (con le consuete derive hot che piacciono tanto a Murphy) rischia di banalizzare una trama che invece è ricca di spunti interessanti. Ma il punto di forza di AHS: Coven, oltre a una sceneggiatura scritta con un linguaggio moderno e accattivante, è il cast stellare: ancora una volta al centro di tutto c’è una meravigliosa Jessica Lange, affiancata dalla conferma Sarah Paulson e, quest’anno, da due grandi stelle come Kathy Bates e Angela Bassett (bellissima e bravissima). Murphy sa di aver messo insieme nomi da grande film cinematografico e dosa il loro carisma con sapiente furbizia. Il risultato, derive teen a parte, è di alto livello.
5. The Bridge
The Bridge è una nuova serie, andata in onda quest’anno per la prima volta, e ha molti difetti narrativi. È troppo lenta e a volte scatta l’abbiocco. Ma merita il quinto posto di questa nostra breve e incompleta classifica per almeno un paio di motivi: innanzitutto la coppia di protagonisti è da standing ovation continua. Diane Kruger e Demian Bichir duellano in una gara di talento infinita, sullo sfondo di un confine Usa-Messico sempre più torbido e criminale.
The Bridge è ispirato a Bron, serie svedese nella quale il ponte al centro di tutto è quello che divide Svezia e Danimarca. Una bella serie, ben congegnata e narrata, ma il ponte di Oresund è nulla rispetto al confine tex-mex al centro della serie americana. Narcotraffico, polizia corrotta, violenza efferata, e debolezze umane che fanno ballare i protagonisti sul filo del rasoio. L’ambientazione è il vero punto forte della serie targata FX, con una fotografia da grande cinema e un sottobosco urbano affollato da piccoli e grandi delinquenti che trasformano la lingua di terra tra Stati Uniti e Messico in un girone infernale degno del miglior Dante.
Fuori classifica, due menzioni speciali. La prima è per Sleepy Hollow, bel prodotto ispirato al classico della letteratura americana di Washington Irving, che unisce atmosfere gotiche a piccole e grandi miserie della provincia americana, senza dimenticare un tocco di sana ironia che rende il tutto molto più appetibile per lo spettatore. La seconda, forse più scontata, è per The Big Bang Theory, ormai una granitica certezza nel panorama comedy. Ormai oggetto di culto, le vicende di Sheldon e Leonard sono entrate nell’immaginario collettivo di mezzo mondo, senza perdere nemmeno un briciolo di geniale ironia, nonostante siano già arrivate alla settima stagione. Resta da capire se il format rischia di logorarsi nei prossimi tempi. A quel punto, sarebbe meglio chiudere in bellezza come ha fatto Breaking Bad, piuttosto che spremere fino all’inverosimile un gioiellino che non merita una fine ingloriosa.