La situazione economica italiana sta portando molti a individuare nell‘euro la causa degli attuali problemi. Si afferma che rinunciando alla lira abbiamo perso (I) il “signoraggio”, (II) la possibilità di monetizzare il debito pubblico e (III) la capacità di svalutare. Il mio modesto obiettivo è chiarire concetti spesso travisati, la cui definizione, natura e grandezza è spesso nebulosa.
Il signoraggio
Il signoraggio è il reddito derivante dall’attività di stampare moneta. La definizione più comune di signoraggio considera che la moneta stampata dallo Stato viene immessa nel sistema comprando debito pubblico (quindi, ritirandolo) sul quale si paga un interesse che indichiamo con R. Sostituendo il debito con la moneta lo Stato risparmia sugli interessi quindi, se M indica le passività a vista della banca centrale in un dato momento, cioè la moneta in circolazione (trascuro la riserva obbligatoria per semplicità), il valore reale del signoraggio è
s = (MR)/P
(dove P è il livello dei prezzi). Si potrebbe sospettare che partecipando all’euro l’Italia abbia perso il proprio signoraggio in quanto non si stampano più lire. Possiamo rassicurare che non è cosi. Oltre il 90% del signoraggio prodotto dalla Bce nell’area dell’euro viene redistribuito alle banche centrali partecipanti in misura proporzionale alle loro “capital keys” (le quote azionarie che ciascun paese detiene nella Bce, proporzionali a popolazione e Pil). La Banca d’Italia, fatti gli accantonamenti a riserva, trasferisce quindi il signoraggio ricevuto al Tesoro (e non, come sostengono alcuni, ai suoi azionisti). Uno sguardo ai dati mostra che i trasferimenti di Bankitalia al Tesoro, dopo il pagamento delle imposte, non sembrano essere cambiati molto con l’euro (il signoraggio è solo una parte piccola di questi trasferimenti; altre risorse vengono dai profitti sugli accantonamenti passati).
I dati reperibili online (capitolo sul Bilancio della Relazione annuale di Banca d’Italia) non mostrano nessuna variazione sistematica al seguito del passaggio all’euro, pur mostrando forti oscillazioni cicliche. Negli ultimi due anni i trasferimenti al Tesoro sono stati molto sopra la media, rispettivamente per 700 e 1.500 milioni di euro. Il secondo fatto importante da registrare è che il signoraggio è una grandezza quasi insignificante nel quadro macroeconomico, inferiore allo 0,1% del Pil. Niente con cui sperare di ripagare il debito pubblico o le pensioni, a differenza di quanto alcune parti politiche suggeriscono ai cittadini dai talk-show e dalle piazze. Questo dato è affatto normale in economie dove l’inflazione è bassa. Utile averlo in mente quando si discute di sovranità monetaria: non è certo con il signoraggio che si possono aggiustare squilibri fiscali come quelli italiani.
Monetizzazione del debito
Per osservare livelli più elevati di signoraggio bisogna spostarsi in economie ad elevata inflazione: nel 1993 un signoraggio pari al 30% del PIL si registrò in Romania, a fronte di inflazione al 256% (cfr Wikipedia per sapere cosa è successo in Zimbabwe, dove si è monetizzato su larga scala). Nessuna grande sorpresa: la relazione tra crescita monetaria e inflazione è tenue quando l’inflazione è bassa, ma ci sono poche previsioni economiche robuste come quella che dice che se il tasso di crescita monetaria diventa a doppia cifra allora l’inflazione lo segue: quando si stampa molta moneta questa finisce per alimentare la crescita dei prezzi.
Il debito pubblico italiano è intorno a 1,3 volte il valore del Pil italiano: una sua monetizzazione (possibile una volta che il paese uscisse dall’euro) implicherebbe un aumento della base monetaria di circa 13 volte (assumendo un circolante pari a circa il 10% del Pil, un valore storicamente corretto e vicino al livello attuale), ovvero un tasso di crescita della moneta del 1200%. Il risultato dell’iperinflazione che ne seguirebbe sarebbe, come altre volte nella storia, di ridurre consistentemente il valore reale del debito (pubblico e non), facendo fallire il sistema bancario e impoverendo così tutti i “creditori” dello stesso (famiglie e imprese).
Per non parlare di cosa succederebbe ai percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati, ad esempio). Le perdite per i creditori derivanti dalla monetizzazione possono sembrare astratte ma sarebbero nei fatti consistenti e dolorose. La monetizzazione del debito equivale a un parziale default: se lo Stato mi deve 100 euro e mi ripaga stampando moneta in una misura tale da raddoppiare, per esempio, il livello dei prezzi, mi ritroverò un potere d’acquisto di 50 euro (ai prezzi di oggi). E’ lo stesso che sentirsi dire dallo Stato: dei 100 euro che ti devo, te ne do solo 50.
Va infine ricordato che circa il 70% dei titoli del debito pubblico italiano è detenuto da residenti italiani: famiglie (circa il 13% direttamente), banche e altri intermediari. Il debito è quindi indirettamente detenuto dalle famiglie che nelle banche depositano i propri risparmi: se la banca investe i depositi delle famiglie in titoli che fanno default, i depositi delle famiglie scompaiono. Solo una parte minore del debito pubblico italiano infatti è detenuta all’estero, intorno al 30% , e sarebbe (per così dire) trascurabile per le prospettive italiane successive a un default. Coloro che desiderano monetizzare il debito pubblico possono perseguire il medesimo fine sostenendo un default. Ovviamente costoro devono anche formulare una proposta su come gestire l’inevitabile crisi finanziaria che ne seguirebbe: che si monetizzi o che si “faccia default” chi rimborsa i depositi ai cittadini e chi finanzia le imprese quando falliscono le banche? Le esperienze storiche indicano in questi casi recessioni e disoccupazione in stile “grande depressione”.
Le svalutazioni competitive
La fissazione irrevocabile dei tassi di cambio fra i paesi che utilizzano l’euro ha rimosso l’aggiustamento del cambio nominale dallo strumentario di politica economica, relativamente a questi paesi. Una valutazione complessiva dei pro e contro della svalutazione (il sostegno all’export, il rincaro degli import, la risposta dei paesi esteri a una svalutazione) è un lavoro complesso. Tuttavia, se proprio si ritiene che una svalutazione sia necessaria alla nostra economia, c’è una buona notizia: si può ancora fare. Fahri, Gopinath e Itskhoki hanno recentemente illustrato un risultato piuttosto intuitivo: esistono misure fiscali che generano effetti reali analoghi a quelli di una svalutazione (su export, import, consumi e benessere, leggere il paper per i dettagli prima di scrivere a sproposito).
Semplificando un po’, gli autori mostrano che si possono manipolare le aliquote fiscali, mantenendo invariato il gettito fiscale, in modo da replicare gli effetti di una svalutazione del cambio. Per esempio una riduzione generalizzata dell’imposizione sulle imprese (l’eliminazione dell’IRAP per esempio, o la riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro) riduce i loro costi rendendo i prodotti meno cari (e quindi più competitivi); si deve però compensare la riduzione del gettito fiscale con un aumento delle imposte indirette (l’IVA per esempio), che non gravano sull’export.
Questa politica replica le conseguenze reali di una svalutazione, in particolare (I): aiuta l’export, riducendo i prezzi dei beni commerciati, a scapito dei consumi italiani (quindi anche di quelli importati) soggetti a maggiore Iva. Altri economisti hanno esplorato per mezzo di modelli econometrici l’efficacia delle “svalutazioni fiscali”: gli effetti trovati sono simili (anche se non identici) a quelli di una svalutazione del cambio. Certo da un punto di vista politico la svalutazione fiscale è poco attraente: chi la decide è costretto a riconoscere che vuole tassare tutti i cittadini (aumentare l’Iva) per sostenere l’export. Una svalutazione del cambio produce gli stessi effetti, ma un politico ha gioco facile a imputarla al maltempo o agli speculatori finanziari. Il punto da tenere a mente è che se quello che interessa sono gli effetti della svalutazione (non come la si ottiene), sembrano essere disponibili politiche fiscali che producono effetti molto simili.
La mia modesta opinione è che queste politiche non offrano una risposta duratura alla crisi che il paese attraversa da un paio di decenni. Abbassare il prezzo del proprio lavoro (ovvero aumentare le ore di lavoro necessarie ad acquistare una Bmw) è una scelta guidata dalla disperazione che non promette niente di buono per il futuro. Ma se proprio si desidera aiutare l’export della nostra economia sarebbe più semplice concentrarsi su una svalutazione fiscale piuttosto che invocare l’uscita dall’euro.
di Francesco Lippi
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