È uno scrittore, ci sediamo al tavolo di un bar, gli prendo le mani. Sei un amico, vero? Lui dice sì. Lo scrittore trema. Faccio finta di niente, si chiama post delirium, lui la chiama nevrosi oppure la chiama tristezza. Non voglio ferirlo, no. La sua solitudine si consuma la sera in una soffitta di una piccola casa di un ronco. A volte lo chiamo dabbasso, si affaccia una vecchia in cortile, da un uscio sbilenco, mi avverte: iddu nun rrispunne. Non risponde. Vecchia come è vecchio il quartiere, mortale quartiere, temo che lo seppellirà prima o dopo, è un destino comune, moriremo d’inedia comunque seduti sulla panca del tempio, guardando l’ultima luce sui tetti di via Dione. Devi scrivere gli dico, seduta al tavolo, lui mi guarda mite, debole come certi agnelli forse prima della mattanza, spaventati dal rumore del mondo. Sfoglio il suo romanzo, adesso devi continuare aggiungo.

È un romanzo di formazione? Chiedo, dandomi un tono. Il suo assillo è sempre lo stesso, vuole una donna, vuole essere amato. Alla fine della sua vita, all’incirca, potrebbe essere mio padre, così fraterno anche, ancora adesso non ha smesso di cercarlo, l’amore l’amore. Lo cerca in internet, nelle chat, le sue proiezioni sono deliri anch’esse, non ne vale una la realtà, meglio quelle. E non ha mai una donna. Dovresti scrivere ripeto noiosamente. So che lui ascolterà appena, un’esortazione che rintronerà distrattamente in un qualche trascurato recesso della sua coscienza, nessuna suggestione, le ha perse per strada o non le sa riconoscere, non più. D’altronde chi sono io per dire o consolare .

Così la sera si chiude in soffitta. Ed io penso a quel titolo, al destino di un titolo, mentre tu immemore vagavi. E il mio amico scrittore mi ritorna nella mente afflitto, arreso ai suoi rituali, all’acqua su cui bagnare il pane, a quelle stranezze che nessuno ha mai inteso chiamare talento o genio. Il suo romanzo inizia con un prologo in cui racconta di una donna, di un tempo, una volta avevo una donna, una volta ero un uomo, scriveva. Sono rimpianti che hanno attraversato le nostre vite, lo faranno prima o dopo, per ragioni diverse. Torniamo al tempio, l’amico va a casa. Gli urlo dietro: hei!. Lui si gira mestamente, gli urlo: non bere ti prego. Siedo al tempio, credo che smetterò di chiamarlo tempio. Il mio problema si chiama noia, non sarà affatto facile trascinarmela dietro, una volta chiuso con la vanità e certe betise, che a superare un po’ di anni inducono alla pietà, la cagionano negli altri. Guardandomi intorno la gente mi par matta, perché vive, ho dimenticato la differenza della luce del cielo quando piove o tira vento o piove. Il mio amico sorride quando dico: betise.

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