La prima legge Salva-Capitale arrivò cento anni fa, l'ultima venerdì per coprire il debito storico di dieci miliardi a cui si aggiunge quello di un miliardo lievitato dal 2008 a oggi. L'allora sindaco Gianni Alemanno e il Pd crearono una sorta di "bad company", ma da allora le cose sono peggiorate
Il buco nei conti del Comune di Roma – di per certo la più sottofinanziata tra le capitali occidentali – è vecchio come l’Italia: basti pensare che una prima legge straordinaria per ripianarlo arrivò addirittura ai tempi del sindaco Natan, cent’anni fa, e l’ultima venerdì, col decreto Milleproroghe.
L’era contemporanea di questo eterno pasticcio inizia invece in una giornata di giugno del 2008 nello studio del presidente della Camera, che all’epoca era Gianfranco Fini. All’interno, oltre al padrone di casa, i ministri Giulio Tremonti e Roberto Calderoli più Gianni Alemanno, da pochi giorni – a sorpresa – sindaco di Roma. Presente in spirito il gran visir del Cavaliere, Gianni Letta, ufficiale di collegamento con Walter Veltroni e il Pd. Fu quel giorno che il quartetto individuò la fantasiosa soluzione per il disastrato bilancio della Capitale con cui facciamo i conti oggi: invece di aprire la procedura di dissesto, se davvero serviva, si decise di creare una sorta di bad company. In sostanza una struttura commissariale governativa – guidata inizialmente dallo stesso Alemanno – che avrebbe dovuto accertare l’entità del debito del comune al 24 aprile 2008 e programmarne l’estinzione con cospicui finanziamenti statali, lasciando la gestione ordinaria libera da vincoli (in realtà oggi al comune tocca partecipare all’estinzione del pregresso con una rata da 200 milioni l’anno).
Finché c’è il commissario, dice poi il decreto, si agisce in deroga alla legge: solo che il commissario non ha una data di scadenza e infatti è ancora lì, anche se nel frattempo è cambiato il sindaco e pure un paio di commissari (dal 2010 è Massimo Varazzani, un tempo vicino a Giulio Tremonti, che è pure amministratore delegato di Fintecna). Stabilito questo, si aprono due ordini di problemi. Primo: quant’è il debito storico? Per anni non si è avuta una stima ufficiale. Alemanno lo quantificò inizialmente in 8,6 miliardi di euro: 6,8 di debito storico, spesso risalente al contenzioso urbanistico degli anni Cinquanta o ai mancati trasferimenti per il trasporto locale, il resto “extra” (cioè nascosto da Veltroni, dice il centrodestra). Poco dopo, il sindaco cambiò idea: il buco è di 9,6 miliardi sostenne – nel dicembre 2008 – l’allora assessore al Bilancio Castiglione; nel 2010 il suo sostituto Maurizio Leo (che poi perse il posto pure lui) lo quantificò addirittura in 12,3 miliardi. Quando quest’anno è finalmente arrivata in Parlamento la relazione ufficiale del commissario Varazzani, il quadro era questo: un debito complessivo di 22,4 miliardi di euro a fronte di crediti per 5,7, cioè un buco di 16,7 miliardi compresi gli oneri finanziari. Per i numeri che ci interessano, insomma, il debito vero – cioè netto – del comune di Roma si aggirava sui dieci miliardi di euro, oggi ridotti a otto e mezzo, e il suo ammortamento ai ritmi attuali è garantito solo fino al 2017, dopo bisognerà aumentare le rate (ma ancora non si sa come).
Ma allora perché c’è bisogno di “salvare” Roma subito? Semplice: perché il debito non ha smesso di accumularsi nemmeno in quella che doveva essere la good company, cioè nella gestione ordinaria dal 2008 in poi. Secondo l’agenzia di rating Fitch, durante i cinque anni della giunta Alemanno i deficit annuali complessivi ammontano a oltre un miliardo di euro e questo nonostante i romani paghino da tempo un’addizionale Irpef doppia rispetto a prima (dallo 0,5 allo 0,9 per cento), un bel po’ di Imu sulla casa e una tassa di imbarco aeroportuale da un euro che colpisce chiunque passi dalla Capitale. Per Ignazio Marino, invece, il debito attuale è un po’ inferiore: 867 milioni, che comunque mettono a rischio la capacità del Comune di pagare gli stipendi e garantire i servizi. Tradotto: default e commissariamento.
La risposta è, appunto, il Salva Roma, oggi Milleproroghe. Che cosa fa questo magico decreto? Si limita a spostare oltre 400 milioni di debiti dal bilancio del comune a quello della gestione commissariale, a stanziare – se saranno confermate le indiscrezioni – circa 20 milioni per la raccolta differenziata nella Capitale e oltre un centinaio per il trasporto pubblico locale (senza contare i 100 milioni per finire la famigerata Nuvola di Fuksas all’Eur). A spanne, in ogni caso, mancano almeno 300 milioni sullo stock degli ultimi cinque anni e va appianato un deficit annuale che al 2013 si aggirava sui 250 milioni di euro (sempre dati Fitch) al netto delle municipalizzate.
Come si fa? Le risposte sono diverse: un ulteriore aumento dell’addizionale Irpef all’1,2 per cento è stato bocciato dal sindaco nonostante l’assessore al Bilancio, Daniela Morgante, lo giudichi quasi obbligatorio; quasi certamente invece le aliquote della nuova Iuc sulla casa saranno ai massimi in tutte le categorie; c’è poi il capitolo – ambizioso quanto incerto – dismissioni immobiliari e risparmi sugli affitti; infine il grande tema delle azioni Acea, che Marino vuole tenere, e dei pessimi bilanci delle municipalizzate come Atac o Ama (con relativa necessità di sfoltire il personale in eccesso con circa 4 mila prepensionamenti). Idee che hanno tutte un loro senso, tanto che erano state avanzate già negli anni scorsi senza che nessuno le abbia mai messe in pratica. Ne discuteremo nel 2014, al prossimo decreto Salva-Roma.
da Il Fatto Quotidiano del 28 dicembre 2013 – aggiornato da redazione web