L’anno si chiude con l’ultimo colpo di scena bancario all’italiana. L’accordo stipulato per salvare il Monte dei Paschi di Siena dalla bancarotta, o dalla nazionalizzazione, è saltato, o meglio gli azionisti ne hanno ignorato le condizioni. Possibile tutto ciò? Ebbene si se la banca, la fondazione ed il governo sono italiani. Vale la pena di riassumere brevemente la storia dell’ennesimo fiasco politico-finanziario made in Italy per capire cosa c’è dietro.

Tra il 2008-2009 il Monte dei Paschi si trova in serie difficolta a causa di transazioni sbagliate, tra cui l’acquisizione della rivale Antonveneta avvenuta per la modica cifra di 9 miliardi di euro, una vera pazzia. Da allora le cose vanno di male in peggio finché si arriva ad un accordo tra gli organi regolatori dell’Unione Europea ed il Ministero delle Finanze italiano: lo stato presterà alla banca i fondi necessari per evitare la bancarotta emettendo i cosiddetti Monti bond; in cambio la Fondazione, che controlla la banca, si impegna a votare un aumento di capitale di 3 miliardi di euro per ripagare il prestito attraverso la vendita di azioni nel gennaio del 2014.

Il management della banca, guidato dal super banchiere Alessandro Profumo – posto alla guida del Monte dei Paschi per condurre questa azione di salvataggio all’italiana -,  si impegna a trovare gli investitori disposti ad acquistare le quote necessarie per produrre l’aumento di capitale. Ed infatti ci riesce: si parla di un gruppo di 10 banche, guidate dall’UBS svizzera, pronte a sottoscrivere la vendita delle azioni per il valore di 3 miliardi di euro, insomma tutto è in ordine e pronto per essere approvato prima delle fine dell’anno ed il governo Letta se ne rallegra perché potrà vantare il successo di almeno questa operazione, ma l’affare sfuma.

Gli azionisti votano contro la ricapitalizzazione a gennaio del 2014 perché non vogliono la partecipazione del capitale straniero, questa la scusa ufficiale presentata alla stampa mondiale: gli italiani non vogliono cedere la più antica banca agli stranieri. Ma le motivazioni vere sono ben diverse ed ancora una volta le loro radici vanno ricercate nelle relazioni incestuose che corrono tra politica e finanza italiana.

L’aumento del capitale di 3 miliardi di euro metterebbe de facto fuori uso la Fondazione, che ancora controlla la banca, e produrrebbe una banca indipendente, di proprietà di banche ed entità, anche straniere, naturalmente, che non hanno nulla a che fare con la classe politica italiana. La muova banca diventerebbe la prima di una nuova generazione di istituti di credito creati secondo l’ingegneria finanziaria dell’Unione Europea, e cioè strutturati seguendo le nuove regole.
Come una fenice, la distruzione della più antica banca darebbe vita alla prima banca dell’Unione Europea. Non male per una banca prossima alla bancarotta, con un capitale sociale di 2,3 miliardi di euro, inferiore al debito contratto con lo stato.

Le implicazioni di questi cambiamenti radicali sono tante: dalla nuova struttura finanziaria delle banche europee ai nuovi ruoli delle istituzioni bancarie, ma a monte di tutto ciò c’è la distruzione dei legami che esistono da sempre tra politica e sistema bancario. Lo strumento delle Fondazioni ha proprio questo compito, è la cinghia di trasmissione tra la classe politica ed il denaro, ed il Monte dei Paschi è l’esempio più lampante di questa ingerenza che l’Europa vuole abolire. Allo stesso tempo le vicende del Monte dei Paschi potrebbero renderlo anche l’esempio più drammatico perché rischia di trascinare in una nuova crisi finanziaria il nostro paese se il debito verrà accollato allo Stato.

Profumo ha ragione, aspettare maggio o giugno (data in cui  gli azionisti hanno posticipato la ricapitalizzazione) per uscire sul mercato alla ricerca di compratori è un grosso errore, i requisiti imposti dalla nuova legislazione europea alle banche del vecchio continente impongono la ricapitalizzazione di molti istituti di credito, il che significa che l’offerta di pacchetti azionari bancari sarà alta ed i prezzi di vendita per piazzarli dovranno scendere. Sarà più difficile e più costoso raccogliere i 3 miliardi di euro in primavera che a gennaio. Senza parlare dei costi degli interessi per 5 mesi: 160 milioni di euro.

C’è poi l’incertezza creata da questa decisione, che sicuramente danneggerà un governo già debole ed instabile; il nervosismo che fomenta in un mercato dove si guarda all’Italia come il malato bancario d’Europa, lo ha fatto anche capire il Fondo Monetario quando ha dichiarato che la gestione manageriale delle 88 fondazioni bancarie italiane non si svolge entro le regole e va cambiata.            

Allora perché aspettare?
L’unica risposta è la speranza che ancora una volta lo Stato intervenga per mantenere i privilegi esistenti e che lo faccia con i nostri soldi, usando insomma l’erario pubblico. Ma questa volta il rischio è di far precipitare il paese in una crisi finanziaria simile a quella del 2011.

 

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