Pino Marino è uno dei migliori cantautori italiani in circolazione.
In una situazione culturale appena decente, a ogni suo album si dovrebbe dedicare un approfondimento in prima serata su Rai Uno; i concerti, nei migliori teatri italiani, dovrebbero far registrare il “tutto esaurito” già svariati mesi prima; le sue canzoni dovrebbero entrare nel patrimonio colturale condiviso del nostro Paese.
E invece non succede.
Perché? Vediamo.
Oggi funziona così: la canzone d’autore di qualità te la devi andare a cercare su internet. C’è voluto qualche annetto fino a che la rete e l’informatizzazione dei mezzi sottraessero all’industria la scelta della qualità artistica dei prodotti, ma oggi i tempi sono più o meno maturi. È finito il «“secolo breve della popular music”, che ha coperto il periodo compreso tra il 1921 e il 1999» (J. Toynbee, Making popular music, Creativity and Institutions, Arnold, London, 2000, p. XVIII. La definizione è chiaramente riferita al “secolo breve” di Hobsbawm).
E questo è un fatto positivo.
Di negativo succede che, nel mare infinito delle proposte che si dicono “indie”, non riescono a emergere e a distinguersi casi di artisti anche mostruosamente bravi. L’etichetta “indie” è diventata un attestato di merito di per sé, e questo fa più danni della grandine.
Ma non è tutto: se prima le grandi major discografiche gestivano completamente il mercato ma indirizzavano i gusti in maniera osmotica, cioè tenevano conto del palato fine di una fetta di acquirenti e avevano tutto l’interesse a dare loro qualcosa che li soddisfacesse, oggi il cosiddetto “setaccio” sta tutto nelle mani dell’informazione, della quantità – e qualità, sia chiaro – mediatica del veicolo, di chi fa conoscere l’artista.
Il bello è che questo veicolo dovrebbe essere rappresentato dagli addetti ai lavori: critici o giornalisti musicali, con l’obbligo di motivare i giudizi su ciò che è bello e ciò che non lo è; il brutto è che mediaticamente la televisione la fa ancora da padrona e quindi si combatte ad armi dispari: anche musicalmente, se qualcosa non esiste in televisione, non esiste. Punto.
Ora mettiamoci comodi e ascoltiamo due proposte, due brani di Pino Marino.
Il primo è L’acqua e la pazienza (Non bastano fiori, 2003):
È un tornare all’assoluto minimalismo del bisogno vitale, d’amore in questo caso: è una pianta che parla, un fiore in un vaso di un pianerottolo affollatissimo. Passa un numero spropositato di persone al giorno, persone di tutti i tipi. Non servono. «Manca l’acqua e manchi tu», dice il fiore.
E poi c’è la parola “pazienza”, che deriva dalle poetiche dei cantautori come Fossati, per dirne uno, o di uno scrittore come Erri De Luca: è l’essenzialità, il fluire delle stagioni. Qui manca come mancherebbe l’aria, come manca l’acqua al fiore.
Tutto questo è il bisogno primordiale da cui nasce l’amore, la mancanza d’aria, l’urgenza delle prime necessità su una melodia soffice e ribattuta, in una vertigine di immagini paradossali, inutili e barocche, che contrastano con l’essenza scarnificata di ciò che serve veramente.
La musica è un ventaglio che si apre e si chiude nell’arpeggio di pianoforte, con un fulcro al centro: il fiore nel vaso – la nota più alta, quella che inverte il senso diatonico –, che dal pianerottolo vede in continuazione gente scendere dall’alto da una rampa e andare verso il basso nell’altra. E viceversa.
Quelle parole sarebbero niente senza quella musica.
In interviste recenti Pino Marino ha dichiarato di non voler più fare concerti con pianoforti digitali; il motivo si intuisce facilmente: quegli arpeggi, quel timbro di quelle note sono state pensate con quella voce, con quell’anima e con quel tipo di pianoforte, per dare quella sensazione unisona. Non c’è possibilità di suonare altri strumenti per eseguire la canzone.
Proprio gli arpeggi di pianoforte – il loro farsi parola, più precisamente – sono il pezzo forte della poetica di Pino Marino.
Prendiamo l’altra proposta di ascolto, L’uomo a pedali (Acqua, luce e gas, 2005):
L’arpeggio iniziale a un certo punto torna nella canzone e, quando torna, l’orecchio – anche inconsciamente – trova il già sentito, una conferma che dà piacere e appagamento, per di più completo di parole, torna il suono iniziale ma parolato, inoltre in un passo fondamentale del brano:
«Dal manubrio riconosco il punto
livido del mondo e un uomo è piccolo
come piccolo son io.
Non è mica semplice
scegliere il punto del mondo
più adatto per scendere
con due gambe incapaci fra loro
a tenere i piedi all’asfalto bruciato
che ogni volta c’è da camminare
ogni volta mi tocca imparare da capo».
Canzone ciclistica, che parla della dualità umana: l’uomo in bici e l’uomo senza, l’uomo nel pieno di una storia d’amore e l’uomo senza; quando c’è passione e vitalità, quando no. La spola è traumatica, è sconvolgente se si è abituati a pedalare – scalzi e spauriti – rimettere i piedi a terra.