Sono oltre 150 i tavoli di crisi nazionali che però sono solo la punta dell'iceberg di una progressiva devastazione. Che Il Fatto Quotidiano ha iniziato a mappare. Inviateci anche le vostre storie a redazioneweb@ilfattoquotidiano.it
Se davvero vuole parlare di lavoro, Matteo Renzi dovrebbe chiedere alla responsabile Lavoro del Pd, Marianna Madia, di fornirgli una mappa più completa di quella che noi iniziamo a pubblicare oggi. E che arricchiremo giorno per giorno, aggiornandola e modificandola (anche attingendo, come abbiamo fatto finora, alle elaborazioni di Cgil e Cisl) visto che stiamo parlando dell’emergenza primaria del nostro Paese. Il lavoro che manca è cosa nota, il lavoro che rischia di dissolversi nelle maglie larghe della crisi, è meno conosciuto. Si disperde nelle mille notizie quotidiane che meritano un’attenzione speciale solo se accompagnate da un gesto disperato. La notte passata sul carro ponte o sulla gru. Come avvenne alcuni anni alla Insee di Milano o, più recentemente, nelle miniere del Sulcis.
Il quadro, nelle sue linee generali, è abbastanza chiaro: oltre 150 tavoli di crisi nazionali che però sono solo la punta dell’iceberg di una crisi dirompente. La cassa integrazione sfiora le 990 milioni di ore nei primi undici mesi del 2013 e questo significa che almeno 520mila persone sono relegate a casa a zero ore e con stipendi da circa 800 euro (i lavoratori coinvolti, però, considerando le riduzioni parziali sono più di 1 milione). Un salasso che la Cgil ha stimato in 3,8 miliardi l’anno. Quei 500mila vanno aggiunti ai 3 milioni in cerca di occupazione registrati dall’Istat a ottobre 2013. La situazione delle tante crisi aziendali, inoltre, crea una saldatura, non cercata, tra la condizione di precarietà di chi svolge solo lavori saltuari (i lavoratori a tempo determinato sono 2,3 milioni) e quella di chi garantito una volta da un lavoro a tempo indeterminato ora è minacciato dal licenziamento incombente.
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Secondo la Cisl, i lavoratori a forte rischio occupazionale sono quasi 150 mila. E tendono a crescere. Questa precarietà è dimostrata da quanto avvenuto alla Firem di Modena, la scorsa estate, quando la famiglia Pedroni pensò bene di trasferirsi in Polonia e di portare via, notte tempo, macchinari e liquidazioni nel pieno delle ferie sperando di non farsi scoprire. Solo la pronta reazione dei lavoratori impedì il peggio. A Bari, gli operai della Om carrelli presidiano la fabbrica da mesi, con il sole di ferragosto e il freddo di questi giorni. Il rischio della chiusura aleggia sopra il mega-impianto di Piombino, dove la Lucchini sembra non avere speranze. Qualche sollievo è giunto nel frattempo alle Acciaierie ternane prontamente riequilibrato, a negativo, dalla crisi generalizzata della Fiat, da quella dell’Ilva, dalla deindustrializzazione sarda, da quanto accade a Telecom, all’Alitalia e in altre aziende di primo piano. Anche una vertenza importante come l’Indesit, chiusasi con un accordo, propone una prospettiva di cassa integrazione per i prossimi anni e rimanda tutto al 2018. Senza contare le chiusure simbolo di Irisbus e Termini Imerese nel gruppo Fiat.
E tutte le altre di cui cercheremo di dare conto. A metà dicembre la Fiom ha organizzato un muro simbolico, formato da tanti cartoni con sopra i nomi delle crisi aziendali e il numero degli operai a rischio, abbattuto, simbolicamente, proprio davanti al ministero dello Sviluppo economico. Lo stesso che Marianna Madia ha imboccato, qualche giorno fa, credendo fosse quello del Lavoro. Nel vivo della crisi più acuta che si ricordi dal 1929 la politica, tutta, dovrebbe evitare di sbagliare palazzi e, quindi, priorità. Con queste nostre “pagine gialle” della crisi, cercheremo di offrirle un orientamento. Sempre che sia in grado di seguirlo.
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