Il sindaco italoamericano punta a risollevare così i quartieri poveri. Ma i più critici temono che i cittadini benestanti lasceranno le case di Manhattan e si trasferiranno in New Jersey, trascinando nel baratro l’economia della città
A Manhattan, nel cuore di New York, Central Park collega le boutique della Fifth Avenue alle case popolari di Harlem. Basta attraversare il parco per rendersi conto del problema più grave della città: l’enorme disparità di ricchezza. E’ proprio questa la sfida di Bill de Blasio, diventato a tutti gli effetti il nuovo sindaco della Grande Mela con la cerimonia ufficiale del primo gennaio, durante la quale ha ricordato di essere pronto ad alzare le tasse ai ricchi per risollevare i quartieri più poveri.
“Siamo chiamati a porre fine alle ineguaglianze economiche e sociali che minacciano il futuro della città che amiamo, e oggi ci impegniamo per una nuova agenda progressista, la stessa che spesso ha scritto la storia di New York”, ha detto il primo cittadino italoamericano, sottolineando che “quando dicevo che la storia delle due città, una ricca e una povera, finirà, volevo dire che lo farò. E lo farò davvero”.
Il programma di de Blasio, che il 5 novembre scorso ha stracciato il repubblicano Joe Lhota, ha fatto discutere molto, al punto che i più critici lanciano l’allarme: i ricchi lasceranno le case di Manhattan e si trasferiranno al di là del fiume Hudson, in New Jersey, dove le imposte sono più basse, trascinando nel baratro l’economia della città.
Più tasse ai ricchi per finanziare 200mila case popolari
Il programma di de Blasio è ambizioso: costruire 200mila appartamenti di edilizia popolare, rendere gratuiti i servizi di doposcuola e aprire nuovi asili nido. Le coperture arriveranno da un aumento delle imposte comunali per i cittadini più abbienti. Chi ha un reddito superiore a 500mila dollari l’anno vedrà l’aliquota passare dal 3,9% al 4,4%, con un esborso che per questa fascia sarà di 973 dollari all’anno. Altro denaro, secondo i piani di de Blasio, arriverà dalla limitazione delle charter school, le scuole gestite privatamente con i fondi pubblici. Ma l’aumento delle tasse, vero fulcro del programma, necessiterà dell’approvazione del governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, che ha già avvertito di non essere intenzionato a cedere facilmente.
Rivoluzione o utopia? Il piano di de Blasio divide gli economisti
Il piano di de Blasio divide gli economisti, tra chi crede di essere di fronte a una rivoluzione che porterà a una distribuzione della ricchezza più equa e chi teme un rallentamento dell’economia in seguito alla fuga dei cittadini più facoltosi. I primi sono fiduciosi che i ricchi non baderanno a spese pur di vivere nella Grande Mela e difficilmente si sposteranno nel più anonimo New Jersey o in Connecticut. Anche il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, sembra in parte approvare, almeno in teoria, il programma di de Blasio. “Economicamente parlando i programmi dedicati all’infanzia sono un buon investimento, il ritorno annuale sui fondi destinati a questo scopo al netto dell’inflazione può toccare il 10% e oltre”, aveva detto nel 2012, sottolineando che “ci sono ben poche alternative che permettono ritorni del genere”.
Chi è contrario, invece, sottolinea che i newyorkesi pagano già più tasse rispetto alla media americana. In particolare l’1% che guadagna di più (35mila persone) paga circa il 43% delle tasse sul reddito di tutta la città. E aggiunge che non c’è bisogno di aumentare i fondi per la scuola pubblica, perché attualmente vengono spesi 20mila dollari per bambino all’anno, più di quanto investono alcune scuole private. C’è poi un timore. De Blasio ha raccolto molti soldi dai sindacati, che ora potrebbero chiedere e ottenere aumenti dei salari degli insegnanti, arrivando a recuperare quelli che negli ultimi anni il suo predecessore, Michael Bloomberg, si è rifiutato di dare.
I più pessimisti temono una fuga come accaduto a Detroit
Lo scenario peggiore, secondo i pareri più allarmisti, è che da 30 a 40mila persone, o peggio aziende, finiscano per trasferirsi negli Stati vicini, come del resto hanno già fatto in molti attirati da aliquote comunali e statali basse, portando via i loro ricchi contributi fiscali. C’è perfino chi teme che accada come a Detroit, abbandonata negli ultimi 30 anni dalla metà degli abitanti. Così in quel che resta della città dell’auto, che ha dichiarato bancarotta a luglio sotto il peso di un debito da 18 miliardi di dollari, sono rimasti i più poveri. Uno scenario simile, per ora, sembra piuttosto improbabile a New York. I media americani, tuttavia, fanno sapere che alcuni agenti immobiliari del New Jersey stanno già ricevendo chiamate da newyorkesi che, intimoriti dai programmi di de Blasio sul fisco, stanno prendendo in considerazione l’idea di lasciare la città.
I 12 anni di Bloomberg: l’economia sale, ma la povertà non cala
Un fatto è certo. Non sarà facile, per de Blasio, evitare che gli abitanti di New York rimpiangano Bloomberg, che ha governato virtuosamente la città per 12 anni, rendendola più sicura e ricca, nonostante l’attentato dell’11 settembre 2001 e la crisi finanziaria del 2008. Non ha però affrontato il divario tra classi sociali, che è diventato sempre più ampio. I numeri parlano chiaro. Il Prodotto interno lordo (Pil) è salito da 513 a 609 miliardi di dollari dal 2001 al 2013, i turisti che raggiungono la città ogni anno sono aumentati da 35 a 52 milioni e la popolazione è salita da 8,1 a 8,3 milioni.
Inoltre, per la prima volta dal 1950, sono più numerose le persone che si trasferiscono nella Grande Mela piuttosto che quelli che la lasciano. L’afflusso nella città è stato sicuramente favorito dal calo della criminalità. L’anno scorso sono stati registrati 419 omicidi, meno di un quinto rispetto al 1990, nonostante la città abbia 1 milione di abitanti in più. Dal 2001 al 2013, però, Bloomberg non è riuscito a ridurre né la percentuale di povertà (rimasta stabile a livelli elevati, il 21,2%) né il tasso di disoccupazione (che anzi è aumentato dal 7,6% all’8,6 per cento).
A rimpiangere Bloomberg sarà sicuramente Wall Street, che occupa 185mila persone e contribuisce per l‘8,5% alle entrate fiscali cittadine, abituata a un sindaco sempre pronto a tutelare gli interessi delle banche. I newyorkesi che lavorano in finanza infatti, con uno stipendio medio di 367mila dollari all’anno contro i 69mila di quelli impiegati negli altri settori, risentiranno particolarmente dell’aumento fiscale promesso da de Blasio.