Ha appena staccato i piedi dal trampolino che già non ha più tempo da perdere. La piscina sarà pure vuota, come dice Massimo D’Alema, ma non è questo l’importante. Il punto è che Matteo Renzi non può permettersi di lasciar cadere nel vuoto un solo minuto dell’anno che viene. Anzi, di più: è in 6 mesi – i prossimi, da qui alle Europee – che potrebbe decidersi il suo futuro. E’ l’ultimo appello per la politica, come dice lui. E rischia di finire tra gli “imputati” se ancora una volta si divaricherà la distanza tra il dire e il fare, per usare il codice dei verbi all’infinito del segretario del Pd (e messo in parodia da Crozza). E allora fare, e fare presto. Le partite da affrontare riguardano in particolare il rapporto con il governo Letta e con Napolitano da una parte e dall’altra il percorso delle riforme istituzionali (in formato mini rispetto a quello dei saggi del Quirinale). Questioni che si riflettono non solo sulle elezioni europee del maggio 2014 (praticamente dopodomani), ma anche sulla sua capacità di tenere in mano il partito e a ingaggiare un duello con Beppe Grillo: “Risparmiamo un miliardo trasformando insieme il Senato” lo corteggia nell’intervista al Fatto Quotidiano. Ma un secondo dopo lo provoca: “Si prende meriti non suoi: anche le migliori battaglie dei Cinque Stelle ottengono risultati solo con la sponda del Pd”.
Dunque l’unico tavolo sul quale può giocare il sindaco di Firenze è quello dove dare un seguito alle parole spese per mesi alle quali la gran parte dell’elettorato del centrosinistra (con pazienza da bonzo) ha deciso di sostenere con l’ennesima apertura di credito. Se al segretario democratico questo non riuscisse il suo sentiero si trasformerebbe in sabbie mobili: sarebbe lentamente risucchiato nel nulla come Walter Veltroni e Pier Luigi Bersani. Trascinato – nonostante il suo continuo scalciare – dall’autostrada verso il futuro al garage del passato.
Disse: “O cambio Firenze o torno a lavorare”
Sì, è vero: Renzi “usa il partito come un trampolino” (ancora D’Alema): l’ha sempre fatto e di solito gli è venuto abbastanza bene. Dalla Provincia al Comune, da Palazzo Vecchio alla guida del partito. Il Parco della Vittoria di questo suo monopoli è Palazzo Chigi. Strategia non senza cicatrici: in Provincia i pasticci della Florence Multimedia e le indagini sulle spese allegre, in Comune il caso delle presunte assunzioni dirette e le polemiche sugli “amici” distribuiti nei punti chiave dell’amministrazione della città. La controversa chiusura di piazza Duomo. La gestione più “commerciale” del patrimonio culturale: “Lo usa come una clava mediatica – scrisse tempo fa lo storico dell’arte Tomaso Montanari – Come una potentissima arma di distrazione di massa”. Le accuse di un’amministrazione del tanto fumo e poco arrosto. Il giudizio è sospeso come minimo fino alle prossime elezioni comunali, nel frattempo Renzi si vanta: “Sono felice del fatto che Firenze è cambiata davvero”. D’altronde la pietra miliare della sua ascesa fu il motto: “O cambio Firenze o cambio mestiere e torno a lavorare”. E prima del trionfo nelle urne dei circoli del Pd ha usato lo stesso spartito: “Se vinco, cambia tutto”. Parlare di Firenze non è andare fuori tema. E’ Renzi che ne fa spesso il format per la sua Italia (dei sogni) in miniatura. A partire dalla metafora usata per il sistema elettorale che preferirebbe: serve, dice sempre, “il sindaco d’Italia“. E a partire dalla scelta di inserire nella direzionale del Pd 20 sindaci. “Non sono preoccupato di passare alla storia, non mi importa – rifletteva di recente in un’intervista alla Nazione – Magari non farò tutto il secondo mandato. Ma sono felice del fatto che Firenze è cambiata davvero. E’ una città viva, quando fino a un po’ di tempo fa si diceva che era morta, che viveva solo di passato”.
Roma vorrebbe normalizzare il “rottamatore”
Magari non farà tutto il secondo mandato e lascerà Palazzo Vecchio in qualche altro polverone. Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva. Roma – raccontano i cronisti che lo seguono da sempre – si illude: crede di poterlo “normalizzare”. “Vedrai che le riunioni di segreteria tra brioche e cappuccino dureranno poco” hanno sghignazzato nei Palazzi. Ma potrebbero essere sorrisi nervosi. Renzi ha davvero rottamato, almeno nelle forme. “Prodi lo aspettavi sotto casa a Bologna, aveva le sue abitudini, lo seguivi fino alla chiesa e lui qualche battuta te la diceva – raccontano – Questo non sai mai dov’è. L’altra volta l’abbiamo perso. Abbiamo chiamato in Comune e non c’era. Ci hanno detto: non lo sappiamo, dovrebbe arrivare a momenti. Abbiamo chiamato un suo collaboratore a Roma e ci ha risposto: qui non c’è. Alla fine è spuntato accanto a Giachetti nella conferenza stampa sulla legge elettorale”. E’ lui che comanda, esce allo scoperto quando vuole. Nascondersi e magari sorprendere: come Jack in the box.
Primo obiettivo: guerra lampo per guidare il governo
La prima operazione della Blitzkrieg che servirà al segretario del Pd per vincere la sfida nazionale sarà quella di prendere saldamente tra le mani il timone del governo Letta, mettendosi alle spalle dunque sia il suo partito sia gli alleati. Sovrapporre la sua agenda (riforma elettorale, abolizione del Senato, job act, cultura, Bossi-Fini, unioni civili) in quella dell’esecutivo. In alcuni casi si tratta apertamente di provocazioni. Ma è vero che il “patto alla tedesca” che ha accettato di ratificare entro il 15 gennaio con Angelino Alfano sarà un primo confronto con la (dura) realtà. Infatti continua a sussurrare nell’orecchio di Enrico Letta la parola rimpasto: Scelta Civica sottostimata e Nuovo Centrodestra sopravvalutato con tutti quei ministeri. Ma non basta neanche questo: “Questo Pd, con le grandi speranze che suscita, l’Italia, con le sue difficoltà e le sue grandi potenzialità, non può permettersi questo governo e i suoi errori – grida battaglia Davide Faraone, pasdaran renziano – E non basta un ritocco, un rimpasto, o si cambia radicalmente o ‘si muore’”. Non è solo. Renzi dice che la parola “rimpasto” gli fa senso, ma rivendica la sua diversità da Letta e Alfano. L’uno “portato al governo da D’Alema che io ho sempre avversato”; l’altro “ministro con Berlusconi quando non ero neanche sindaco”. Lui, invece, ricorda il dettaglio di aver appena vinto un confronto in cui sono finiti in gioco 3 milioni di voti.
Parlare a Letta perché il Colle intenda
Inevitabile poi che il messaggio sia trasversale e salga fino al colle più alto. Il governo è la ragione di esistere del presidente della Repubblica che ha fondato la sua rielezione su larghe intese e riforme (le prime sono diventate strettine e delle seconde non c’è nemmeno una traccia). E viceversa: il governo esiste perché c’è il timone invisibile (e lo scudo) di Napolitano. Al Quirinale studiano Renzi come in una partita di scacchi. La “fuga” dal Colle prima del buffet per gli auguri di Natale – dov’è tradizione stringere la mano al presidente – è stata derubricata a gaffe, ma può nascondere anche la voglia di Renzi di continuare ad avere le mani libere. E’ l’unico che nel Pd non ha “debiti di riconoscenza”: lui non c’era tra coloro che si sono presentati a mani giunte da Napolitano a scongiurarlo di accettare di rimangiarsi la parola e diventare il primo presidente rieletto nella storia della Repubblica.
La scommessa del sindaco è di essere deciso come un guerriero vichingo ma con i metodi di un chirurgo in sala operatoria. La vera sfida sarà infatti di non farsi trascinare nella lotta del fango (cioè del pantano) con Alfano e gli altri, ma nel frattempo neanche apparire come l’ennesimo “sfascista” antagonista del governo e per proprietà transitiva del capo dello Stato. La regola aurea, cioè, è non apparire il pessimo imitatore di Grillo e Berlusconi.
Il correttore di rotte del Pd
Per il momento il ruolo di Renzi è stato più difficile del previsto. In più occasioni ha dovuto comportarsi più da 118 che non da guida spirituale: sulla web-tax (rinviata a luglio), sulla norma pro-slot machines scovata dai Cinque Stelle. Ancora più difficile, tutto questo, con gruppi parlamentari che sono ancora quelli eletti con il Pd di Bersani (pare siano passate tre legislature) e quindi con i renziani in minoranza. Mentre soprattutto coloro che hanno sostenuto Gianni Cuperlo non stanno a guardare. Matteo Orfini ha già borbottato sul job-act, Danilo Leva in un’intervista all’Huffington Post ha paragonato il sindaco a Grillo e Berlusconi. E pezzi di apparato sono anche saliti sul carro del vincitore da tempo. Dario Franceschini, per esempio, è il ministro per i Rapporti con il Parlamento. Spesso è l’ufficiale di collegamento tra Palazzo Chigi e Palazzo del Quirinale. Difficile vederlo nel ruolo di eventuale picconatore al fianco del sindaco. Ma anche in questo senso forse i nomi di Zanonato e Bray entrano nelle voci di rimpasto.
Riforme, concorrenza ai 5 Stelle, Europee: tutto si collega
Tout se tient, dicono i francesi. Riforme significano concorrenza ai Cinque Stelle e riavvicinamento all’elettorato, quindi voti ed Europee, quindi ulteriore forza nei confronti di Letta. Un circolo virtuoso, sulla carta. Renzi ha aperto il fronte delle riforme (quella elettorale e la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie) per non lasciare al solo Movimento Cinque Stelle il ruolo di quelli che vogliono cambiare la politica. Fare in senso contrario quello che ha fatto spesso il M5s, occupando parte del terreno che in teoria del centrosinistra (estensione dei diritti, politica meno costosa, dialogo con il mondo del lavoro) addirittura fino a puntare su un uomo che da decenni incarna la sinistra (Stefano Rodotà) per l’elezione a capo dello Stato. Dunque Renzi ha bisogno di fare l’operazione inversa. Ha già cominciato mettendo in agenda unioni civili, Bossi-Fini e ius soli (temi semi-dimenticati, nonostante le stragi di migranti a Lampedusa, e molto delicati per i 5 Stelle), proponendo l’abolizione del Senato (“Risparmiamo un miliardo”), avviando un dialogo finora fruttifero nientemeno che con Maurizio Landini.
Studio Cise: “Recupera voti da astenuti e M5s”
Più in generale l’obiettivo è trasformare il partito: non bastano le facce nuove e giovani, ma anche idee nuove. In questo caso per riconnettere il Pd con l’opinione pubblica. Basti pensare al caso Cancellieri. “Oltre un decimo di quanti si erano astenuti a febbraio – hanno scritto pochi giorni fa Lorenzo De Sio e Aldo Paparo a commento di un sondaggio che hanno condotto per il Cise di Roberto D’Alimonte – dichiari oggi l’intenzione di votare per il Pd”. C’è di più. Secondo la stessa indagine appena il 51% degli elettori rivoterebbe lo stesso partito. Ebbene: il 15 per cento di chi nel febbraio scorso ha scelto i Cinque Stelle se si votasse domani sceglierebbe il Pd. Mentre Berlusconi dichiara di puntare a astenuti e grillini, Renzi pare lo stia già facendo. E’ tutto legato, secondo De Sio e Paparo, alla “leadership innovativa (nelle forme senza dubbio, nei contenuti ancora da chiarire) di Renzi”. Le elezioni politiche sono ancora lontane, il primo test del nuovo Pd sono le Europee. Entro quella data (25 maggio) Renzi ha fissato il primo crinale della storia del governo e – di riflesso – del partito e sua. Allora si scoprirà se è vero quello che aveva detto: “Se vinco, cambia tutto”. In caso contrario chissà se vale ancora quella possibilità di cambiare lavoro.