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Banche e imprese, un anno di agonia per i poteri forti italiani

Siena inghiotte il Monte dei Paschi, ma anche gli istituti più piccoli crollano, da Carige a Banca Marche. Il Corriere perde via Solferino e la Telecom perde se stessa diventando spagnola, Alitalia sogna gli arabi e Montezemolo spera di non perdere più decine di milioni con i suoi treni, mentre all'Ilva resta tutto come prima, nonostante i commissari

Dopo un anno così sembra che restino soltanto macerie, anche se molte delle storie di impresa e finanza del 2013 devono ancora giungere al loro, prevedibilmente, poco allegro epilogo. Ecco cosa è successo e cosa succederà nel 2014 a quelli che una volta erano considerati poteri forti.

Si scioglie il groviglio di piazzetta Cuccia. “Qualche groviglio in meno” e, soprattutto, “finalmente la finanza italiana viene rimodellata”. Sono i possibili effetti del piano triennale di Mediobanca, secondo l’Economist, che in un articolo del 28 giugno sottolinea come il Belpaese , a partire da “buon cibo, vini eccellenti e cultura eccezionale offre molte cose al mondo, ma in pochi considererebbero Roma o Milano per il loro modo di condurre gli affari o per la loro gestione finanziaria”. Per il settimanale britannico, l’istituto di Piazzetta Cuccia, è finalmente “al passo con i tempi”, dopo essere stato “a lungo al centro di una rete di relazioni incestuose che collegano tra loro la maggior parte delle principali aziende italiane”.

Punto di svolta è l’annuncio fatto il 21 giugno dall’amministratore delegato Alberto Nagel sulla cessione di tutte le partecipazioni azionarie e sull’uscita dai patti di sindacato. Meno capitalismo dei salotti, più mercato, assicura Nagel presentando il nuovo piano industriale 2014-2016 che prevede l’uscita dai patti di sindacato in scadenza per rientrare nella piena disponibilità delle quote apportate. Perché le partecipazioni incrociate “sono un’eredità del passato e oggi non corrispondono al miglior modo di allocare il capitale”.

Unica eccezione: le Generali. Mediobanca, primo azionista con il 13,2 per cento (quota destinata a scendere al 10% nell’arco del piano) è il più convinto sostenitore della svolta del Leone compiuta con l’arrivo di Mario Greco. Piazzetta Cuccia ha intanto dimezzato la sua quota in Telco, la cassaforte di Telecom, negoziando un’ulteriore finestra di uscita dalla holding nel giugno 2014. Concentrazione nel core business di banca d’affari, internazionalizzazione, cambio della governance con riduzione del numero di consiglieri in adesione alle indicazioni di Bankitalia, sono dunque le principali direttrici in cui si muoverà la Mediobanca nel 2014. A febbraio i grandi soci apriranno anche il cantiere della revisione dei patto di sindacato che avrà durata biennale e sarà più snello senza la suddivisione degli azionisti in tre grandi gruppi.

Addio via Solferino, l’avanzata della Fiat. I giornalisti del Corriere della Sera ricorderanno il 2013 come l’anno della cessione della storica sede di via Solferino. I soci di Rcs come l’anno della fine del patto di sindacato. Il 12 febbraio il gruppo editoriale vara infatti un business plan che prevede 800 esuberi e la chiusura di dieci periodici. Due giorni dopo, mentre il management è alle prese con la crisi dei conti, le Fiamme Gialle di Milano arrestano il finanziere Alessandro Proto con l’accusa di aver divulgato false informazioni al mercato. Comprese quelle su Rcs di cui Proto sosteneva di possedere il 3,2% e di essere a capo di un patto di sindacato con il 2,77% del gruppo insieme a personaggi dai nomi improbabili.

Archiviato il fantomatico blitz di Proto, a marzo i conti del gruppo restano in profondo rosso e c’è bisogno di un aumento di capitale da 600 milioni anche per rifinanziare il debito bancario in scadenza. Intanto scalpita Diego Della Valle, il patron della Tod’s e azionista di Rcs con l’8,6 per cento che insiste da tempo sullo scioglimento anticipato del patto di sindacato, proposta che è stata respinta dal presidente della Fiat, John Elkann. Tra i soci fuori patto, anche Giuseppe Rotelli insiste su una revisione della governance prima dell’aumento. Aumento da cui poi si chiamerà fuori il 17 giugno, diluendosi così nel capitale dal 16 al 4 per cento.

Poche settimane dopo, il 28 giugno, il re della sanità ammalato da tempo muore nel letto di un suo ospedale. Lo stesso giorno, la Fiat acquista altri 10,7 milioni di diritti di opzione che le daranno diritto alla sottoscrizione di oltre 32 milioni di azioni Rcs. Mossa che porterà gli Agnelli a superare il 20 per cento del capitale. Il salotto buono non serve più: il 14 ottobre il patto di sindacato si scioglie anticipatamente. Rcs diventa di fatto contendibile. Ma più povera. Il 13 novembre è costretta a vendere le sedi di Solferino e San Marco al fondo Blackstone. Il futuro? Nessun rischio di scostamento dagli obiettivi dell’ambizioso piano industriale 2013-2015, nessuna tensione con le banche creditrici, assicurano dal gruppo. Che però è costretto a vendere altri pezzi e partecipazioni per fare cassa. Quanto al Corriere della Sera, dall’inizio del 2014 aumenterà il prezzo di copertina a 1,40 o 1,50 euro.

La scoperta dei derivati che hanno affondato Monte Paschi.Monte dei Paschi, accordo segreto tra Mussari e Nomura per truccare i conti”. È questo il titolo dell’articolo firmato da Marco Lillo sul Fatto Quotidiano del 22 gennaio che dà il via all’inchiesta sui derivati Alexandria e Santorini sottoscritti dagli ex vertici della banca senese e legati allo sciagurato acquisto di Antonveneta nel 2007. I due nuovi amministratori della banca, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, scoprono un buco da circa 200 milioni di euro lasciato dalla precedente dirigenza.

Il 23 gennaio, l’ex presidente Giuseppe Mussari lascia la guida dell’Associazione Bancaria Italiana. La Banca d’Italia accende un faro sull’istituto di credito toscano e il titolo Mps perde il 5,7 per cento sul listino di Piazza Affari. Mentre incalzano le indagini della magistratura, il 6 marzo Siena e il Monte sono scossi da una tragedia: David Rossi, il responsabile dell’area comunicazione della banca, si suicida gettandosi dalla finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni. Rossi, che non era indagato, una decina di giorni prima era stato perquisito nell’ambito dell’inchiesta su Antonveneta. Il 17 aprile le indagini sui derivati arrivano a una svolta: la Guardia di Finanza sequestra 1,8 miliardi alla banca giapponese Nomura nell’ambito dell’operazione di ristrutturazione del derivato Alexandria. Viene indagato il presidente del gigante nipponico, Sayeed.

L’8 ottobre per il Monte dei Paschi parte il piano del rigore. Il consiglio di amministrazione approva le nuove strategie: aumento di capitale e 8mila esuberi. La ricapitalizzazione che inizialmente doveva essere di 1 miliardo viene portata a quota 3 miliardi. Il vertice della banca vuole vararla a gennaio, mentre la Fondazione Mps – ancora azionista di controllo con il 33,4 per cento – chiede di rinviarla a maggio per poter cedere una parte delle sue quote e rimborsare circa 340 milioni di debiti contratti con le banche ai tempi del finanziamento di Antonveneta. Il 28 dicembre l’assemblea dei soci riunita in seconda convocazione boccia la proposta di Profumo. Vince la linea della presidente della Fondazione, Antonella Mansi, arrivata a Palazzo Sansedoni a settembre di quest’anno. Il 2014 sarà l’anno decisivo per il Montepaschi che dovrà chiudere con successo l’aumento di capitale per restituire i Monti bond allo Stato ed evitare così la nazionalizzazione.

Buchi in provincia, dalle Marche alla Liguria all’Umbria. L’annus horribilis delle banche italiane, accompagnato dal basso continuo del dramma Montepaschi, ha avuto i suoi acuti all’inizio con il commissariamento della Banca Popolare di Spoleto, in estate con lo scandalo della Banca delle Marche e alla fine con l’esplosione del caso Carige, a Genova. Tre casi diversi ma ciascuno a suo modo tipico del triangolo perverso banche-politica-imprese.

La popolare di Spoleto è stata commissariata a febbraio. La vicenda ha assunto i toni della commedia all’italiana con il padre-padrone, Giovannino Antonini, che ha impugnato il commissariamento davanti al Tar del Lazio e il 22 luglio è stato arrestato insieme al giudice del Tar Franco De Bernardi per aver cercato di pilotare la sentenza. Il 2014 ci dirà se sarà il Banco Desio o la cordata Clitumnus ad aggiudicarsi il salvataggio della banca.

La Banca delle Marche, con crediti deteriorati pari al 20 per cento dei prestiti fatti e oltre 500 milioni di perdita nel 2012, ha chiamato un banchiere pluridecorato come Rainer Masera alla presidenza il 9 luglio e lo ha messo in fuga il 14 ottobre. Giusto il tempo di scoprire che la promessa del vecchio amico Francesco Merloni e del presidente della Regione Gian Mario Spacca, di soccorrere la banca con capitali freschi dell’imprenditoria marchigiana, era uno scherzo. Adesso la banca è commissariata e la Procura di Ancora indaga sui prestiti facili agli imprenditori amici e sulle prodezze dell’ex direttore generale Massimo Bianconi, l’unico banchiere al mondo che è riuscito nello stesso giorno a farsi cacciare con ricca buonuscita e a farsi riassumere con ricco stipendio. La Banca d’Italia cerca un salvatore.

Sulla Carige, che ha chiuso i conti al 30 settembre scorso con una perdita di 1,3 miliardi, rimarrà memorabile l’autodifesa del presidente in uscita (e indagato) Giovanni Berneschi: “Il presidente Napolitano dice di aiutare le imprese. E a me accusano di avere aiutato le imprese liguri. Ma ci rendiamo conto?”. Ecco, anche gli ispettori della Banca d’Italia stanno cercando di rendersi conto.

Come conquistare la Telecom a prezzo di saldo. Il problema di Telecom Italia non è che sia finita sotto il dominio di un azionista come Telefónica España, classificato come straniero anche da certi commossi europeisti. Il problema è avere l’azionista di controllo in conflitto d’interessi, quello che trae maggiori vantaggi dalla rovina dell’azienda controllata che non dalla sua prosperità. Il 24 settembre 2013 l’accordo con cui Mediobanca, Intesa Sanpaolo e Assicurazioni Generali hanno consegnato a Telefónica il controllo di Telco, veicolo che possiede il 22,4 per cento di Telecom Italia, ha fatto venire al pettine un nodo intrecciato nel 1999. Allora il governo guidato da Massimo D’Alema, in nome della neutralità “blairiana” di fronte al libero dispiegarsi delle forze del mercato, non si oppose alla scalata a debito di Telecom da parte della razza padana di Roberto Colaninno. Da allora la rete telefonica italiana è gravata da un debito enorme che impedisce gli investimenti necessari. E da allora si sono succeduti al comando gruppi di comando avidi o squattrinati (o le due cose insieme), con un’unica idea fissa: un nuovo socio che immettesse i capitali necessari avrebbe fatto perdere loro il potere su una cassaforte da 30 miliardi annui di liquidità incassata con le bollette.

Il capo di Telefónica, Cesar Alierta, è riuscito per anni a evitare l’aumento di capitale e con l’aiuto dei suoi complici italiani ha fatto saltare il dialogo con i cinesi di Hutchinson (azionisti di 3) e quello con l’egiziano Naguib Sawiris. Il 3 ottobre scorso il presidente Franco Bernabè ha lasciato il comando dopo sei anni, in aperta polemica con gli azionisti di Telco. Ma all’assemblea del 20 dicembre il sostegno dei fondi stranieri all’azionista ribelle Marco Fossati si è rivelato superiore al previsto. Il 2014 sarà un anno di battaglia, e la partita Telecom sarà decisiva per l’Italia. In gioco l’evoluzione del mercato finanziario e per il futuro della rete Internet più arretrata d’Europa.

Ilva, l’unica cosa sicura è l’emergenza permanente. Nel 2014 “prevediamo 600-700 milioni di investimenti nell’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale” che si potranno fare “se ci saranno finanziamenti perché le nostre risorse non bastano”. Potrebbe bastare questa frase di Enrico Bondi, commissario straordinario dell’Ilva, a raccontare il 2013 della fabbrica di Taranto. Basterebbe questo per spiegare che dodici mesi di “salva Ilva”, insomma, non sono serviti. I quattro provvedimenti legislativi ad aziendam varati da due governi nell’ultimo anno, evidentemente, non hanno ancora portato i frutti immaginati.

Non è bastato un garante dell’Aia, cancellato pochi mesi dopo la sua nomina. Non è bastata la nomina dell’allora amministratore delegato dei Riva, Bondi, come commissario del governo. Non sono stati sufficienti nemmeno un sub commissario come Edo Ronchi, un commissario per le bonifiche come Alfio Pini e un comitato di tre esperti per dare il via a una concreta opera di risanamento del dramma sanitario e ambientale del capoluogo ionico. Quello che resta di questo 2013, soprattutto nelle coscienze di operai e cittadini, nella fabbrica di Taranto è principalmente la decisione della Corte costituzionale di concedere “una cappa di impunità” all’Ilva: finché non sarà a norma potrà continuare a emettere sostanze nocive. Un inquinamento provvisorio a norma di legge. Perché al di là delle azioni penali, della chiusura di un’inchiesta con 53 indagati, delle eventuali richieste di rinvio a giudizio e del quadro desolante emerso dalle intercettazioni con i padroni dell’acciaio, il dato è che il nodo tra salute e lavoro a Taranto è ben lontano dalla sua soluzione. Anzi.

I fondi non ci sono: bisognerà elemosinare dai Riva, pescare dai soldi sequestrati agli industriali dalla procura di Milano oppure chiedere alle banche. Ma con quali garanzie Bondi potrà presentarsi agli istituti ora che la Cassazione ha restituito anche il tesoro da 8,1 miliardi di euro ai signori dell’acciaio? La strada del 2014, così, non appare molto diversa da quella già percorsa. L’attuale equilibrio finanziario non è garantito da gennaio in poi e Bondi,quindi, chiede “un provvedimento veloce altrimenti faticheremo a fare tutto quello che dobbiamo fare”. Un altro. Non l’ultimo.

Il flop dei patrioti e l’ultima speranza araba per l’Alitalia. In attesa del cavaliere bianco con le insegne della compagnia aerea Etihad di Abu Dhabi, l’Alitalia continua a perdere 1 milione di euro al giorno. Se per qualche inciampo le trattative con gli arabi dovessero saltare e quindi dovessero venire a mancare in tempi ragionevoli i 300 o forse 350 milioni di euro di capitali freschi di cui si parla, è con questa triste passività quotidiana che i manager della compagnia italiana dovranno fare i conti nel 2014.

In assenza di significativi cambiamenti nell’organizzazione dell’azienda, nel giro di pochi mesi si squaglierebbe l’aumento di capitale di 300 milioni di euro sottoscritto a fatica alla fine del 2013 dai “patrioti”, cioè i privati messi in pista nel 2008 da Silvio Berlusconi. Al massimo ad autunno 2014 l’Alitalia sarebbe di nuovo a un passo dal fallimento. Con l’aggravante di non poter più contare neanche sulla ipotetica rete di protezione di Air France che dopo aver corteggiato la compagnia italiana per più di un decennio ha preso atto proprio nel corso del 2013 che è stato tutto inutile. Dopo aver puntato 320 milioni di euro 5 anni fa per aggiudicarsi il 25 per cento del capitale di Alitalia in versione patriottica, dopo essersi resi ben presto conto che il nuovo corso berlusconiano era destinato a finire in un culdesac, i capi della compagnia transalpina avevano praticamente puntato sul tanto peggio tanto meglio, convinti di potersi giovare del fallimento dell’azienda italiana inglobandola per due soldi.

L’ingresso di Etihad sta scompaginando i loro piani tanto che i francesi hanno addirittura deciso di uscire dal gioco rinunciando all’aumento di capitale. La loro partecipazione in Alitalia è ora ridotta a poco più di un presidio di appena il 7 per cento. Gli arabi di Etihad hanno intenzione di prendersi Alitalia con il 49 per cento del capitale, stando attenti a non superare questa soglia per evitare che la compagnia italiana diventi a tutti gli effetti extraeuropea e quindi costretta a rivedere i complessi accordi aerei bilaterali con il resto del mondo.

Italo, il sogno ridimensionato della concorrenza sui binari. Non ci saranno Italo regionali. Rimasta scottata dalla sfida con le Ferrovie sui binari dell’alta velocità, la Nuovo trasporto viaggiatori (Ntv) di Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle non parteciperà alle gare europee che si terranno nel 2014 per l’assegnazione dei servizi ferroviari locali a partire dalla Campania. La notizia non è ufficiale, ma sicura, e non è affatto buona, soprattutto per i pendolari, condannati ancora chissà per quanto tempo a usare solo quei convogli delle ferrovie statali che finora si sono rivelati un calvario.

La rinuncia di Ntv non è una scelta, ma frutto di uno stato di necessità. Dopo appena 20 mesi di attività e una perdita di circa 80 milioni di euro nel 2012 l’azienda privata dei treni si appresta a chiudere un altro esercizio in rosso ed è costretta a ridimensionare di molto i suoi sogni di gloria e le sue previsioni di espansione. Il punto di pareggio tra entrate e uscite è stato spostato di due anni, dal 2014 al 2016. Per contenere i costi, il vertice aziendale ha avviato un piano assai severo di tagli e contenimenti. A cominciare dalle retribuzioni degli stessi manager, ridotte in media del 10 per cento. Nel frattempo una decina di dirigenti hanno lasciato la società in seguito al taglio delle direzioni, portate da 14 a 9. Entro il 2016 Ntv conta di ridurre i costi per un totale di 68 milioni di euro, intervenendo praticamente su ogni voce di spesa e tentando di contrattare su nuove basi meno onerose gli accordi con i fornitori.

Nel corso del 2013 le casse esangui della società sono state rimpolpate con apporti straordinari di capitale da parte dei soci, 85 milioni di euro in totale in varie tranche, l’ultima delle quali a dicembre. Altri apporti di capitale sono stati già previsti per il 2014. Sui risultati non brillanti di Italo incide la politica asfissiante delle Fs sui prezzi dei biglietti, ritenuta sleale dai manager privati. A febbraio Ntv ha presentato un esposto e a maggio l’Antitrust ha aperto ufficialmente un’inchiesta tuttora in corso.

di Francesco Casula, Camilla Conti, Daniele Martini e Giorgio Meletti

da Il Fatto Quotidiano del 31 dicembre 2013