Io chi fosse Pippo Fava neanche lo sapevo. Non avevo proprio idea. Mi ricordo solo che un giorno di un anno relativamente lontano notai un giornale su un bancone di marmo di una tipografia di provincia. Era un posto a me noto, perché lì, tra quei pochi metri quadrati, mio nonno stampava di tutto da mezzo secolo circa, amico affiatato fino alla morte dei vecchi caratteri mobili uguali uguali a quelli di Gutenberg. Quel giornale era in realtà una rivista, dorso nero, disegni ingialliti e confusi al centro e una scritta in stampatello, in alto sulla copertina, che anni dopo avrei chiamato testata: I Siciliani, c’era scritto. Quei pochi elementi bastarono per capire che non si trattava di un prodotto autoctono: veniva da fuori, come molto materiale che spesso trovavo su quel tavolo in cui mio nonno accumulava interessi. Non mi ricordo che anno fosse, quanti anni avessi, ma doveva essere un’età in cui era ancora lecito essere innocenti, ignoranti, non conoscere nulla di corrosivo, di articolato, niente all’infuori delle figurine Panini o dei fumetti. Di quella rivista ricordo che mi colpì solo un’altra cosa, una scritta piccola, poco sotto la dicitura I Siciliani, che diceva: direttore Giuseppe Fava. Perché mi è rimasta impressa nella memoria onestamente proprio non lo so. Perché quella rivista non la rividi, non attirò la mia curiosità, non credo averla neanche sfogliata.
Ma la ritrovai lì, nello stesso medesimo posto in cui l’avevo lasciata, anni dopo, quando rientrai in quella tipografia solo dopo la morte del legittimo proprietario. A quel punto chi fosse Pippo Fava e cosa fossero I Siciliani lo sapevo già. Quello che non sapevo era sentire i brividi. I brividi che si provano a sfogliare un giornale andato in stampa solo poche settimane dopo l’assassinio del suo fondatore. In calce a quel numero del maggio 1984 c’è la firma di Claudio Fava, orfano di mafia che con lucidità pubblica un’inchiesta su mafia e banche, meno di quattro mesi dopo l’omicidio del padre.
Tra poche ore saranno trascorsi trent’anni dalla morte di Fava. Per qualche strano motivo questa terra è professionalmente efficace nell’esercitare le ricorrenze, soprattutto quando si tratta di ricorrenze di morte. In Italia c’è una sorta di calendario parallelo, che ci racconta di morti ammazzati, stragi, uomini scomparsi all’ora di cena. La cosa più assurda è che mentre siamo ormai specializzati nell’esercitare anniversari di lutto, poco o niente ha imparato questo Paese dal sacrificio dei suoi morti. Il mensile I Siciliani, guidato per alcuni anni – con forze sovrumane – dai ragazzi sopravvissuti a Fava, vide la sua fine qualche tempo dopo che cinque colpi di pistola misero a tacere il suo fondatore. Ci hanno provato a tenerlo aperto, ci prova ancora oggi Riccardo Orioles, un sopravvissuto di quella stagione, ma la maggioranza di occhi e orecchie non sono disposti a fermarsi sulle tracce scritte, tangibili, reali. “Tra i miei modelli sicuramente Pippo Fava” sono litanie diffusissime, anche dalla penna di chi gli è stato contemporaneo, senza essergli né amico e nemmeno vicino. Almeno finché era vivo.
La fiction di tv, il santino da mostrare per il trentesimo anniversario, i vari termini di paragone gonfi d’orgoglio scaduto. E poi qualche ricordo su quel giornale, che non è conveniente andare ad aprire. Perché aprendo I Siciliani del maggio 1984 ci trovate un’inchiesta sulla magistratura collusa catanese, sui due macro editori siciliani di quel tempo e di questo, su Trapani che aveva (e forse ha) più sportelli bancari dell’intera Zurigo. Ricordare Pippo Fava dovrebbe passare soprattutto dalla lettura di quello che Pippo Fava ha fatto, che è poi in definitiva il motivo per cui è morto, e quindi viene ricordato. Ma gli anniversari in questa terra molto esperta di commemorazioni sono sempre monchi. Possiamo ricordarci di Fava, magari due o tre parole sui Siciliani: leggere cosa c’era scritto, chi ci scriveva e come su quel giornale non è consigliabile. Forse ci ricorda come avremmo potuto essere.