Generali e ammiragli brindano all’inizio di un nuovo anno di spese pazze in armamenti alla faccia della crisi. Nel 2014 la Difesa si prepara a spendere altri 5 miliardi di euro in cacciabombardieri, navi da guerra, blindati ed elicotteri da combattimento, cannoni, siluri, bombe, droni e satelliti spia. Impermeabili a ogni spending reviewe refrattari a qualsiasi controllo parlamentare, gli stati maggiori continuano a sentirsi intoccabili. Ma l’anno che viene potrebbe riservare loro qualche sorpresina.

Il 2013 verrà ricordato come l’anno in cui il Parlamento, pungolato dall’opposizione di Sel e Cinque stelle e facendo leva su un’articolo della riforma militare del 2012, ha osato esercitare le proprie prerogative di controllo sui programmi di riarmo della Difesa. A partire dai famigerati F35 da 150 milioni di euro l’uno, per cui le mozioni approvate da Camera e Senato il 26 giugno e 7 luglio impegnavano il governo a non procedere a nessuna “ulteriore acquisizione” in attesa delle conclusioni di un’apposita indagine conoscitiva parlamentare. Un’inaudita insolenza per i vertici militari, che hanno immediatamente reagito attraverso il Consiglio supremo di Difesa presieduto da Giorgio Napolitano lanciando un duro monito: “Niente veti del Parlamento sulle spese militari”. E infatti, incurante della volontà del Parlamento, il ministro della Difesa Mario Mauro ha continuando ad autorizzare di nascosto la firma di nuovi contratti per centinaia di milioni di euro.

IL MINISTERO: “NUOVE COMMESSE? NO COMMENT”. Il 27 settembre scorso, oltre a saldare l’ultima rata da 113 milioni dei primi 3 aerei già acquistati (e già pagati per 350 milioni di euro), è stato firmato il contratto d’acquisto definitivo di altri 3 aerei per 403 milioni (per i quali in precedenza erano stati anticipati 47 milioni). Successivamente, non è dato sapere quando, sono anche stati versati 60 milioni di anticipo per ulteriori 8 aerei (che la Difesa vuole acquistare nel 2014, anno in cui intende inoltre dare anticipi per altri 10 aerei). Quando queste informazioni di “ulteriori acquisizioni” – trapelate dagli Stati Uniti – sono state riferite in commissione Difesa, diversi parlamentari, sentitisi presi in giro, hanno chiesto immediate spiegazioni e hanno preteso di avere accesso a tutti i documenti contrattuali. Niente da fare: il ministro Mauro si è limitato a ribadire (nemmeno di persona, ma per bocca di un messaggio letto in aula il 18 ottobre dal sottosegretario all’Agricoltura…) che a suo giudizio le mozioni parlamentari “non incidono sulle politiche di acquisto già determinate”. A più riprese ilfattoquotidiano.it ha chiesto alla Difesa dettagli sull’avanzamento dei contratti del programma F35, rimbalzando contro un cortese muro di gomma e ottenendo alla fine solo un secco ma eloquente “no comment”. 

“Queste ulteriori acquisizioni sono contra legem – taglia corto Gianpiero Scanu, capogruppo Pd in commissione Difesa – così come lo è l’ostinata resistenza della Difesa a ogni controllo parlamentare sulle sue politiche di spesa. Un potere di controllo che è stato introdotto nella legislazione italiana con una norma dall’aspetto innocuo ma di portata dirompente: l’articolo 4 della legge 244 del 31 dicembre 2012. Dal giorno della sua approvazione è in atto uno scontro durissimo, una continua guerra di posizione tra il Parlamento e la Difesa che non vuole accettare questa legge che pone fine a decenni di spese incontrollate. L’indagine conoscitiva parlamentare sugli F35, che qualcuno voleva chiudere frettolosamente a dicembre senza alcuna presa di posizione, proseguirà fino a febbraio e si dovrà concludere con un documento prescrittivo che la Difesa dovrà rispettare”. Quale sarà questa ‘prescrizione’ non è ancora dato sapere ma, dopo la svolta renziana del Pd, tra gli addetti ai lavori c’è chi ipotizza (e chi teme) un congelamento del programma o un suo ulteriore forte ridimensionamento. Durante la campagna per le primarie, il sindaco di Firenze aveva dichiarato: “Gli F35 sono soldi buttati via, io ho proposto il dimezzamento”. 

E GLI F-35 “ABBATTONO” GLI EUROFIGHTER. Ipotesi a parte, al momento ciò che fa testo rimane il cosiddetto Dpp (Documento programmatico pluriennale) della Difesa per il triennio 2013-2015 presentato lo scorso aprile dall’allora ministro della Difesa Di Paola – oggi consulente di Finmeccanica – che dei 5 miliardi di spesa totale allocata per il nuovo anno su decine di programmi di riarmo (guarda la tabella) ne assegna oltre mezzo (535,4 milioni per la precisione) agli F35 della Lockheed Martin. Questo mentre si continua a investire il doppio (un miliardo l’anno, anche nel 2014) nel programma aeronautico alternativo Eurofighter – rara concretizzazione della tanto auspicata cooperazione industriale europea nel settore difesa e principale concorrente del programma americano – che invece la Difesa ha deciso di tagliare proprio per far posto agli F35, nonostante tutti gli esperti del settore lo ritengano ampiamente sufficiente a soddisfare da solo le esigenze della nostra Aeronautica (come lo è per la Luftwaffe tedesca, che infatti ha scelto Eurofighter rinunciando agli F35), per giunta con indiscutibili vantaggi in termini di costi di manutenzione, di ricaduta tecnologica e occupazionale e, non ultimi, di autonomia operativa vista la comproprietà dell’hardware, che invece rimane sotto esclusivo controllo americano sugli F35: veri e propri “aerei a sovranità limitata”.

L’attaccamento della Difesa al programma F35 è spiegabile solo tirando in ballo delicati equilibri di politica estera. Il 16 luglio scorso, pochi giorni dopo l’approvazione delle mozioni, l’ambasciatore americano David Thorne ha convocato nella sua residenza romana di Villa Taverna i massimi vertici militari italiani per ricordare loro, con il sorriso e un bicchiere di rosso in mano, che l’Italia “deve” mantenere gli impegni presi rispetto al programma F35 se vuole “continuare a essere nostro stretto alleato, ad avere voce in capitolo quando si tratta di prendere decisioni sulle regioni più critiche e sulla sicurezza mondiale e a rimanere tra gli alleati Nato di alto livello giocando un ruolo di leadership”. Gli F35 come pegno di fedeltà verso il nostro potente alleato, come suggello di quella “stretta alleanza che unisce Italia e Stati Uniti e che – spiegava Thorne quella sera d’estate ai nostri generali – è andata rafforzandosi negli ultimi dieci-quindici anni con il comune impegno nei Balcani, in Medio Oriente, in Afghanistan e Nord Africa”. Un impegno, quelle nelle missioni internazionali, che incide in maniera sostanziale sulla spesa italiana in armamenti.  

IL COSTO OCCULTO DELLA MISSIONE IN AFGHANISTAN. Dopo aver esaminato la lista dei programmi di riarmo in corso, sorge infatti spontaneo chiedersi a cosa ci servano tutte queste nuove armi visto che, per fortuna, non si intravedono all’orizzonte conflitti mondiali o invasioni straniere. La risposta data la scorsa primavera in Parlamento dal capo di stato maggiore della Difesa, ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, era stata molto sincera: “Le nostre forze armate dispongono di materiali, sistemi d’arma e mezzi adeguati all’impegno attuale e il cui standard possiamo considerare, dal punto di vista qualitativo, paritetico a quello di molti nostri alleati; sussiste tuttavia l’esigenza di ammodernare e rinnovare costantemente le dotazioni delle nostre unità per l’impiego continuato in operazioni lontane dal supporto logistico in patria, che ne ha fortemente accresciuto l’usura”. Insomma, non compriamo nuove armi tanto per ragioni di sicurezza nazionale, quanto in funzione delle prolungate campagne militari condotte in paesi lontani. Afghanistan in primis

Combattere una guerra implica la necessità di ricostituire le scorte di munizioni (durante la campagna aerea sulla Libia del 2011 abbiamo sganciato bombe per 260 milioni), rimpiazzare i blindati danneggiati negli attacchi nemici e impiegare mezzi più robusti e sicuri, potenziare i sistemi di protezione delle basi e degli avamposti, dotarsi di droni di sorveglianza, di artiglierie più precise, di mezzi e armi per le forze speciali e di tutta una serie di altri strumenti richiesti dalle esigenze operative. Voci di spesa (evidenziati in grigio nella tabella) da centinaia di milioni che contribuiscono a far salire a 5 miliardi la spesa annua in armamenti e che rappresentano un costo occulto delle missioni militari internazionali che si somma al costo palese dichiarato nei periodici decreti di rifinanziamento. 

Lo tengano a mente i nostri parlamentari quando al rientro dalle festività saranno chiamati a rifinanziare la prosecuzione del coinvolgimento militare italiano nella sempre più sanguinosa guerra civile afgana (2.730 civili uccisi nel 2013, un incremento del 10 percento rispetto all’anno precedente). I principali paesi della Nato se ne sono già andati dal’Afghanistan o se ne andranno entro un anno, perfino la Gran Bretagna lo ha annunciato pochi giorni fa. Il governo italiano invece, senza consultare il Parlamento, si è impegnato con Washington e con il presidente Karzai (che con le elezioni presidenziali del prossimo 5 aprile uscirà di scena e Allah solo sa da chi verrà rimpiazzato) a lasciare le sue truppe nei deserti afgani almeno fino al 2017 e a donare 360 milioni all’esercito di Kabul.

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