Ahimè – dice lo specchio –  non sei più un “ragazzo di Fava” ma un anziano signore un po’ imbranato che sale le scale a fatica per via del sovrappeso. E come si chiamava quel giudice? Te lo ricordi ancora? Giornalista antimafia? Ma a chi vuoi darla a bere?

Ma i ragazzi di Fava ci sono ancora. Si chiamano Giorgio, Ester, Salvo, Valeria, Andrea, Norma e sono dei ragazzi come noi allora. Chi ha fatto un buon giornale per anni (giù al sud della Sicilia) prima di essere messo con le spalle al muro. Chi ha cacciato il sindaco mafioso (in alta Lombardia) a colpi d’inchieste. Chi ha fatto l’antimafia in Emilia – organizzazione e giornali – chi Milano, chi a Roma. Son ragazze e ragazzi fortissimi, buoi, senza paura. Bravi nel loro mestiere. Nessuno s’è mai accorto di loro (come per noi, d’altronde) salvo qualche giornalista vecchio e un po’ matto. Loro (come noialtri) non ci hanno fatto mai caso. Hanno rifiutato l’“ognuno per sé” e “la mia carriera”, la cifra fondamentale del nostro tempo. Forse con le sconfitte e col tempo cambieranno. Ma ora sono così.

Son tutti ragazzi traditi. Una l’hanno lasciata sola, in quella notte lunghissima di minacce e lusinghe (“Ti assumo con un sacco di soldi, ma devi scrivere come dico io, solo per me”). La città minacciata – e non innocente – dormiva. E lei impaurita e decisa, cogli occhi aperti nel buio, da sentinella. A uno hanno fatto chiudere il giornale – lui e gli altri venti ragazzi – perché gli masticava troppa vita: alla gente importante un “Clandestino” in più o in meo cosa importava?

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Si affollano disordinatamente gli amici passati: Scidà che mise a posto i giudici, D’Urso che fu il primo a denunciare i Cavalieri, P. che rischiò la vita infiltrato nei mafiosi, “Cotoletta” ferroviere precario, Antonio operaio a Bologna, Fratangelo che ci portò a un passo dal fare il quotidiano, Sabina laggiù nel Messico, Fabio il fascista e Lillo di Lotta Continua, e Fabiolino a quindici anni, e Rosalba, e Cettina e Campanellina e Graziella, e Sebastiano e Gianfranco… Il nostro piccolo popolo, sgranato in venti città e dentro trent’anni. Nessuno dei nostri tradì, pochissimi – attraversato tutto – finirono nei borghesi. Molti, non più ragazzi ma adulti, vivono vita grama, da disoccupati. Ma senza calare la testa: guardateli negli occhi, quando qualcuno dice la parola “Siciliani”.

Sono ancora nemici, che lo vogliano o no. Quel che hanno fatto da giovani non gli verrà mai perdonato. Hanno mostrato a tutti, non come sciocchi leader ma da banda d’amici, da soldati, che un altro mondo era possibile, che si poteva fare. Nella Catania dei nobili, dei Cavalieri e dei servi, di Rendo e Ciancio, hanno portato le migliaia in piazza, hanno costruito giornali. Non si può raccontare di loro, né nei film né dei libri – senza essere ingiusti. Perché non sono sei o dodici, i nomi da ricordare, ma più di cento. Un epos che non puoi rinchiudere in una pagina o in una scena, ma che vorrebbe uno scrittore di popolo, un Giuseppe Fava. Non essendoci lui, il nostro unico scrittore è la realtà. Passa di voce in voce, di vita in vita, fa generazioni. E non sarà cancellata tanto presto.

(Vale la pensa di parlare delle miserie della zona grigia, del mediocre accanirsi nella decostruzione della memoria, nella riscrittura? Nel liceo che fu roccaforte dei Siciliani portano a commemorare Fava un fautore di Ciancio, un collabatore sorridente: ma è poi così importante? Davvero credono facile ricostruire la storia per i ragazzini?).

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Ciancio, trent’anni fa, era monopolista e dittatore –  nell’informazione in Sicilia – come ora. Ma noi, trent’anni dopo, lo contrastiamo (quasi soli: ma suffficienti) come allora. La Famiglia Rendo, trent’anni dopo, è potente in America (i venti appalti alla Invision, direttamente da Bush) e nell’Est europeo (i tre quotidiani acquisiti e riciclati a Budapest). Ma noi ci siamo ancora. Non come vecchi senatori che ricordano e rimpiangono, ma come ragazzi di venti e trent’anni, esattamente dli stessi – con altri nomi – di allora. E’ una battaglia impari, perché la prepotenza e il denaro possono vincere le battaglie. Ma la gioventù, alla fine, ha sempre vinto le guerre.

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Niente commemorazioni, niente appelli. Chi vuole, sa già tutto quel che c’è da sapere. Non c’illudiamo d’aiuti di ricchi e di potenti. Ma i poveri e i ragazzi sono stati generosi, in questi trent’anni. Quasi esclusivamente loro, e basteranno.

L’unica cosa difficile, in questa guerra, è stato questo dovere durissimo di raccogliere, generazione dopo generazione, i migliori ragazzi; e scagliarli in avanti, ciascuno al proprio posto, ad affrontare i pericoli e a pagare i prezzi. Senza speranza di premio, senza paura di dolore. Non abbiamo illuso nessuno: chi ha voluto lottare ha saputo benissimo perché lottava e cosa avrebbe dovuto pagare. Eppure sono venuti in tanti, mai ci hanno lasciati soli.

Del resto parleremo un’altra volta, delle cose da fare. Un’altra volta ringrazieremo i colleghi “anziani” (i Capezzuto, i Giacalone, i Luciano Mirone, i Baldo, i De Gennaro, i Mazzeo…), i quadri veterani e esperti della nostra banda di giovani.

Per ora, soltanto questo: trent’anni, e noi siamo ancora qua.

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