Paolo Barbieri intervista Claudio Cerritelli, docente di Storia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Una riflessione sullo stato del Paese con la massima concentrazione di opere d’arte deturpato dalla speculazione edilizia in cui si disinveste nei musei, nei siti archeologici (Pompei è l’esempio più clamoroso) e nella cultura in generale
Claudio Cerritelli si è laureato in Storia dell’Arte Moderna presso l’Università di Bologna dove si è perfezionato in Storia dell’Arte Contemporanea. Dal 1986 è titolare di una Cattedra di Storia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Critico militante è autore di monografie sull’opera di artisti contemporanei, inoltre come storico dell’arte organizza rassegne storiche in spazi pubblici e privati. È autore di molti libri di critica e direttore delle rivista d’arte “Meta”. Con lui il punto della situazione.
Non c’è Paese al mondo con il patrimonio culturale e artistico dell’Italia eppure i musei sono male organizzati, i siti archeologici abbandonati (Pompei è l’esempio più clamoroso), le città d’arte come Venezia e Roma sporche, per non parlare dello scempio della natura con case abusive costruite ovunque. A cosa è dovuta questa situazione?
L’immagine “sfigurata” del nostro bel Paese è malinconica, non è possibile ignorare che una corretta gestione del patrimonio artistico e culturale riguarda la nostra salute fisica e mentale, che la tutela ambientale è condizione primaria per pensare il futuro senza inganni. La distruzione della natura va di pari passo con l’assalto speculativo, l’indifferenza verso una fruizione consapevole dei beni culturali si sposa con la logica basata sull’imperativo dell’intrattenimento. E’ fin troppo ovvio che ogni bene culturale sia fonte di ricerca dell’identità storica e civile di un paese, e invece nulla che sappia contrastare in modo persistente il degrado del patrimonio artistico e ambientale. Il fatto è che, a parte l’osservanza di precise competenze tecniche, si è alquanto liquefatto l’impegno politico per cambiare rotta, la dignità collettiva del bene culturale appartiene sempre meno al campo dell’educazione civile e morale e sempre più al profitto dei predatori. Anche l’architettura non è tenuta in sufficiente considerazione e le nostre città non costruiscono realtà belle e coraggiose, da un punto di vista architettonico. Cosa che invece in Francia, in Spagna avviene.
Come mai, secondo lei, negli ultimi anni non c’è attenzione al bello, al nuovo e manca la volontà di abbellire le città? Solo colpa della politica?
La dimensione della città va costantemente ripensata e reiventata, le linee guida del suo miglioramento mi sembrano legate al rispetto della sua morfologia storica e all’innesto di nuove costruzioni capaci di interpretare l’identità stratificata dei luoghi. Il mito del grattacielo o della scenografia urbana strepitosa rispondono a scelte che non servono a nulla se non prevedono un progetto che regola l’insieme delle diverse tipologie, se non si calano nella memoria della città. Credo che il miglior coraggio consista nel seguire le reali necessità del vivere collettivo, nel modificare le deficienze strutturali e le anomalie dell’architettura stessa. Serve sensibilità e sapienza critica nel ridefinire ciò che si è costruito contrastando il degrado che avanza con progetti legati all’idea di funzione pubblica. Ammiro gli architetti che si pongono al servizio di una qualificazione estetica della città, senza cedere all’estasi del profitto, alle lusinghe del marketing. L’importante è che il cittadino non abbia mai la sensazione di sentirsi estraneo o escluso dall’ambiente in cui vive, infatti è l’armonia delle molteplici funzioni ciò che qualifica il modo di partecipare alle dinamiche future della città.
La Biennale di Venezia e molte mostre evento sparse per il Paese. Ma, a suo giudizio, qual è lo stato dell’arte nel nostro Paese?
Nel panorama delle grandi esposizioni pubbliche si avverte che l’offerta è sempre più commisurata alla divulgazione delle opere di grandi artisti o movimenti artistici di sicuro richiamo, con strategie di comunicazione che riflettono soprattutto gli interessi del mercato delle mostre stesse. Quest’industria espositiva alletta un pubblico che si compiace di visitare esposizioni reclamizzate a tutto campo, senza mai sognarsi di entrare in una galleria d’arte contemporanea per rendersi conto che la ricerca va avanti e la conoscenza degli artisti del presente va coltivata con altrettanta attenzione. L’attualità in Italia è attraversata da molteplici fermenti creativi, una vera e propria mescolanza di linguaggi (dalla pittura alle nuove tecnologie) rispetto alla quale lo spettatore gode di una finta libertà di lettura, in realtà è sommerso da un flusso che travolge la possibilità di fermare lo sguardo, meditare, approfondire e costruire un vero rapporto conoscitivo con i linguaggi che mutano. Comunque sia, il polso vitale della situazione è – a mio avviso- sempre legato all’attività espositiva delle gallerie private, soprattutto quelle che, pur nella deprimente crisi, resistono e si spingono oltre la soglia garantita dei valori storici, esplorando situazioni di ricerca sconosciute, impegnandosi a sostenere e valorizzare il talento di artisti giovani e meno giovani.
Fëodor Dostoevskij ha scritto che la bellezza salverà il mondo. Pensa che possa salvare anche l’Italia, oppure dobbiamo rassegnarci a vivere nella bruttezza e nella volgarità che ha caratterizzato questi anni?
La percezione della bellezza è legata più al senso della sua perdita che a quello della sua visibile pienezza, non a caso gli artisti amano inseguire la bellezza senza mai raggiungerla, senza l’illusione di possederne la misura e la durata. Il fantasma della bellezza vive nella sua continua evocazione, essa è un bisogno che fa parte dell’umano sentire, un desiderio di risvegliare quel senso poetico della vita che riguarda il nostro essere al mondo, insieme con gli altri e per gli altri. Purtroppo si tende a considerare la bellezza come uno slogan smerciabile per tutti gli usi e consumi, da un lato si celebra la sua idea come luogo d’incanto e meraviglia, dall’altro non si prende posizione contro le brutture esistenti. L’arte contemporanea ha mescolato i paradigmi conoscitivi e creativi mettendo in scena molteplici idee di bellezza, spingendosi a cercarla nelle forme e negli oggetti più disparati e anomali. Tornando all’oggi, per contrastare la deriva volgare della bellezza decorativa a fini commerciali bisognerebbe coltivare la bellezza delle idee e dei sentimenti che modificano ciò che sembra immodificabile, una forza trascinante che rompe i suoi stessi argini immutabili.
La corruzione è un cancro del Paese. A suo giudizio gli italiani hanno perso il senso del bene comune come quello del bello?
La persistenza dei casi di corruzione che caratterizza la vita pubblica e privata del nostro Paese lede fortemente il bene comune come possibilità di fruizione e difesa del suo stesso valore futuro. Dico cose apparentemente scontate, il fatto è che tale situazione di degrado morale ferisce la dignità stessa di ogni cittadino impegnato a difendersi da questo ammorbamento diffuso. Rivendicare il primato del pubblico interesse fa parte dei fondamenti della vita collettiva, per questo bisognerebbe, al di là dell’indignazione emotiva, usare strumenti efficaci, azioni legali, strategie comuni per opporsi alla costante minaccia di disgregazione del tessuto democratico. Dobbiamo ritrovare fiducia nel diritto di opporci alle forme di barbarie che ci circondano, al fine di ottenere una pluralità di risultati che incidano sulla gestione politica del bene comune. Non credo sia pura utopia.
Arte e società, arte e impegno sembrano binomi dimenticati. Lei avverte un disimpegno anche tra gli artisti?
L’intellettuale engagé è definitivamente finito. Frequentare gli artisti di tutte le generazioni mi ha fatto comprendere che l’impegno politico ha senso soprattutto come verità umana, come partecipazione a un orizzonte di trasformazione collettiva. Anche quando si dichiara anarchico e asociale, l’artista è sempre “impegnato” attraverso la forza implicita della sua ricerca. La preoccupazione maggiore è di sottrarsi alla progettazione ideologica dei politici di professione, affermando che il ruolo dell’artista non può avere peso politico se non come specifica attività creativa. Certo, oggi l’autonomia critica dell’artista è meno evidente, molti ardori sono evaporati, l’individualismo autoreferenziale è prevalso su modelli di coinvolgimento sociale. Tuttavia, credo che continui a esistere una forte consapevolezza del ruolo politico dell’arte, della sua funzione critica rispetto alle regole dell’esistente, per esempio quella di eludere l’appiattimento esasperante della globalità comunicativa. Sono persuaso che sia decisivo rifondare un’idea d’impegno come capacità liberatoria dai condizionamenti del sistema stesso della cultura e dell’arte, dai suoi rituali agghiaccianti, anche a costo di sembrare isolati e disimpegnati.
Lei insegna all’Accademia di Brera quindi ha molti contatti con i giovani. Cosa pensa di loro? Ha fiducia nel futuro osservandoli?
Considero l’insegnamento della storia dell’arte antica e contemporanea un privilegio, soprattutto per il dialogo con le future generazioni di operatori nel mondo delle arti visive. I giovani mi sembrano più reattivi di quello che si crede, non li vedo affatto spaesati ma capaci di orientarsi nel grande mare delle discipline formative che l’Accademia propone. Certo, molta responsabilità è dei docenti, quello che occorre trasmettere è il grande potenziale conoscitivo che sta nello studio e nell’approfondimento dei temi fondamentali dell’arte, soprattutto per sviluppare la sensibilità e il senso critico: pensare e saper fare. Avverto negli allievi lo sforzo di navigare nella complessità delle arti visive interrogandosi sulle radici del presente. Oltre all’aspetto storico e teorico mi piace visitare i laboratori, valutare con loro pratiche e metodi, verificare il peso specifico delle diverse procedure tecniche come condizione per affermare la propria identità senza imposizioni. E questo non è poco.