Non si sbaglia a sentire una nota di rimpianto nei ricordi di Furio Colombo a proposito dei primi anni della Rai. Tolta la componente strettamente individuale – eravamo tutti molto giovani, molto impegnati, molto motivati dai nostri progetti; molto “credenti”, ciascuno a suo modo – le altre ragioni di questa nostalgia meritano di essere ricordate e discusse ancora oggi, anche e soprattutto perché la storia della Rai è in molti sensi la storia del nostro Paese.
E la Rai che anche Colombo ricorda con nostalgia era la Rai di un servizio pubblico estremamente vivo e creativo anche e soprattutto perché era un ente tutt’altro che “neutrale”. L’ingegner Filiberto Guala e i suoi più stretti collaboratori a cominciare da Pier Emilio Gennarini, erano dei cattolici antifascisti seriamente convinti di essere portatori di un programma culturale-politico decisamente orientato, e dunque tendenzialmente di parte, anche se proprio per il loro impegno religioso professavano un sincero liberalismo “degasperiano” nei confronti dello stato e delle sue istituzioni.
Insomma, lungi dall’essere (solo) una industria culturale amministrata da persone oneste e intelligenti, che avevano avuto il merito e la fortuna di scegliersi dei buoni collaboratori, la “nostra” Rai di allora era una ideologica macchina da guerra. Se si vuole, il fatto che quella stagione sia durata così poco coincide fin troppo perfettamente con gli sviluppi della situazione politica generale, in cui la forza e la presenza della cultura cattolica antifascista, oggi diremmo più schiettamente catto-comunista, andarono rapidamente consumandosi lasciando il posto alle forze tradizionalmente egemoni nella società italiana, con l’imporsi progressivo del “fattore K”, di un atlantismo bigotto e sospettoso che lasciava bensì ancora vivere un La Pira, ma sempre più ridotto a una edificante figura marginale.
Da un lato, dunque, rimpiangere la Rai degli inizi significa rimpiangere la giovinezza della repubblica, non solo la propria. E le possibilità che allora sembravano – o erano davvero – tali e che sono state travolte dal successivo divenire dell’ordine imperialistico (giacché non potevano essere solo forze endogene quelle che hanno trionfato). Ma un secondo pensiero si affaccia insieme a questi. Ed è l’idea che una grande industria culturale come era e dovrebbe essere la Rai può operare bene sono se ha un deciso orientamento ideale. Un pensiero che io stesso non oso davvero pensare fino in fondo.
I grandi musei, per esempio, sono frutto di scelte orientate: dei sovrani, ai tempi delle monarchie; di qualche “curator” in tempi democratici. Così grandi case editrici come la Einaudi dei tempi gloriosi. E forse la decisione della Rai di lottizzare i suoi canali – da Rai uno mainstream e filo governo, a Rai due socialista, a Radio Kabul di Curzi e del Pci – non era poi poco saggia. La laicità non è orientamento unitario, è il lasciar sussistere molti orientamenti ognuno con la propria caratteristica. E’ verosimile che persino chi oggi chiede la privatizzazione della Rai pensi in realtà a un sistema culturalmente pluralistico, che risponda non solo a un azionista di riferimento – il quale, se ispirato solo dal desiderio di profitto diventerà fatalmente un monopolista – ma da una forte convinzione liberale magari difesa e prescritta con una legge.
La famosa lottizzazione che tutti abbiamo deprecato era perversa solo perché poi, all’interno di ciascuna delle zone politicamente assegnate, le competenze specifiche erano sacrificate alla osservanza politica. Ma vale la pena, sull’onda della rievocazione delle origini della tv, domandarsi se un pluralismo culturale regolato dallo Stato e dunque, certo, dalle forze politiche, non sia un regime più favorevole alla creatività di quanto possa una assoluta libertà del mercato.