Sono stati pubblicati recentemente i risultati di una serie di studi, da cui emerge che essere ricchi renderebbe più cattivi. Secondo lo psicologo autore dello studio, che ha preso in considerazione il comportamento dei giocatori a Monopoli, quelli favoriti nell’attribuzione delle fiches tenderebbero a infischiarsene della situazione dei giocatori meno fortunati e ad assumere atteggiamenti molesti. Più significativamente, a mio parere, lo stesso studioso ha messo a confronto le scelte nei confronti della beneficenza di ricchi e meno ricchi, più propensi dei primi a donare. Ancora, è stata rilevata una maggiore tendenza dei ricchi a barare, rubare le caramelle destinate ai bambini e non rispettare le strisce pedonali.
Come spesso o quasi sempre accade in materia di esperimenti comportamentali di questo tipo, si tratta, in realtà, di conclusioni alquanto discutibili. Non è ad ogni modo consentito generalizzare più di tanto. Esistono in effetti anche i ricchi compassionevoli e quelli intelligenti che si rendono conto che vivere in un mondo sempre più diseguale non conviene in fin dei conti neanche a loro. A quest’ultima categoria, di cui si auspica l’estensione, appartengono per esempio i newyorchesi benestanti che si sono dichiarati disposti a pagare perfino più tasse, pur di appoggiare le politiche di redistribuzione e difesa dei servizi sociali sulle quali è stato eletto recentemente sindaco Bill De Blasio.
Purtuttavia, i risultati di questo studio producono una certa inquietudine, specie se si constata come l’aumento delle distanze economiche e sociali costituisca un innegabile connotato del sistema dominante, come dimostrato da vari studi della Banca mondiale e dell’OCSE, fra gli altri. Il comportamento spesso arrogante e non rispettoso delle regole del traffico da parte di chi guida suv ed altri veicoli di grossa cilindrata costituisce d’altronde un dato di esperienza quotidiana per ciascuno di noi. E’ pure innegabile che sia in aumento il numero dei più ricchi fra i ricchi, i supermiliardari che continuano ad arricchirsi. I quali apparentemente non hanno in effetti alcun bisogno di essere cattivi, anzi destinano una parte delle loro fortune alla beneficenza, salvo ripensarci quando i beneficati, come nel caso della Chiesa ai tempi di Francesco, diventano troppo critici nei confronti del sistema. Una carità quindi alquanto pelosa. Direttamente ed esclusivamente funzionale al suo mantenimento, e quindi l’altra faccia della cattiveria.
Ancora più inquietante, se possibile, appare del resto il comportamento spesso intollerante di chi si trova nella parte, ben più grande, della popolazione che subisce la crisi mediante fenomeni di impoverimento. Costoro tendono infatti a volte a cercare capri espiatori della situazione di crescente disagio che vivono, e li trovano, com’è logico che sia in assenza di una coscienza di classe, nelle minoranze di vario genere (lgbt, migranti, nomadi) o nei diversi in genere.
Vecchio e diabolico meccanismo con cui già più volte l’umanità ha fatto i conti da tempi immemorabili. In tempi relativamente recenti, come scrive Gunther Anders in un saggio del 1933 ripubblicato di recente da Micromega, un meccanismo di questo tipo è stato utilizzato dal nazismo per dare sfogo alla rabbia dei disoccupati e degli impoveriti dalla crisi: “il garzone ha appreso a diciassette anni a fare il falegname, ora ha ventitré anni. Non ha mai potuto tradurre in lavoro quello che ha imparato… Essere adulto significa per lui non avere né il diritto, né la possibilità, di fare qualcosa.. All’improvviso gli si apre una via di fuga…il suo pugno alzato conserva felicemente una direzione verso cui poter picchiare… picchia là dove gli viene indicato. E non ha bisogno di nient’altro che di un nemico”. Il nemico in questione venne trovato, com’è noto, negli ebrei. Nell’Europa odierna, colpita dai morsi della crisi, settori ideologicamente vicini al nazismo, come Alba dorata in Grecia e i suoi spennacchiati epigoni italiani, tendono a proporre gli stranieri e gli immigrati come i nuovi candidati al ruolo di capri espiatori. Una versione più soft del poveraccio cattivista, è quella rappresentata chi, anziché indignarsi perché gli tolgono lavoro e servizi sociali, urla e strepita perché essi verrebbero dati, anziché a lui, che è di razza pura o comunque benedetto dagli dei, a qualche straniero, magari pure scuro di pelle. Non è vero, ma non importa, così si sfoga e nel frattempo continua a perdere diritti.
Si direbbe, quindi, che un aumento della cattiveria, sia nella sua versione reale che in quella ideologica (cattivismo), costituisce una conseguenza del funzionamento del sistema economico-sociale vigente, detto capitalismo, il quale, specie nella sua versione neoliberale attualmente in voga, determina un forte affievolimento del senso di comunità e dell’empatia sociale, producendo piccoli e grandi mostri. Un indubbio peggioramento della qualità della specie umana cui sarebbe il caso di opporsi energeticamente, rilanciando coscienza di classe e coscienza di specie.