Ho potuto dare ai miei due figli anche il mio cognome, ormai 23 (e poi di nuovo 18) anni fa, solo perché sono figlia unica, e quindi nella motivazione pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale che ha sancito l’aggiunta del mio al cognome del padre c’è scritto che altrimenti, in mancanza di un fratello, il mio cognome si sarebbe ‘estinto’.
Fortunata, quindi, ad essere figlia unica: se avessi avuto un fratello l’iter sarebbe stato molto più lungo e, con molta probabilità, anche negativo.
Preservare però dall’estinzione il mio cognome (che sempre comunque cognome paterno è) non è il motivo per cui ho fatto decine di code agli uffici per altrettanti certificati, oltre ad avere speso un milione di lire per due volte (la pratica non era automatica, anche se la madre ero sempre io).
Il motivo per il quale ho affrontato burocrazie ottuse, antipatie di molte e molti per una decisione che veniva vissuta come inutile, risibile, potenzialmente conflittuale, e ho anche speso soldi (tanti per me) è questo: sono convinta che se si viene al mondo dal corpo di una donna che ha fatto un progetto di maternità e paternità consapevole con un uomo, e i due desiderano condividere la crescita di figli e figlie, il progetto deve avere la firma di entrambi.
Il cognome è questa firma, è il segno che vieni da quel nucleo, e fin qui il nucleo è stato segnato da una sola delle due firme.
Il cognome è un segno di appartenenza e di potere: non è un caso che molti uomini chiedano la prova biologica dell’essere padri prima di dare, o non dare, il loro cognome, e allo stesso modo non è un caso che ci sia l’obbligo di attribuire a chi nasce solo il cognome paterno, nel matrimonio, senza la possibilità di dare a chi nasce anche, o solo, il cognome della madre.
Il cognome, appunto, si tramanda, e segna non solo la potestà sulla discendenza, ma anche il diritto a ereditare per legge beni e proprietà.
Da pochissimo non esistono più figli e figlie di serie b, ‘contrassegnati’ non a caso, prima della parità in famiglia, della dicitura ‘nn’, figli e figlie di nessuno, nemmeno della madre che li ha partoriti. Che paradosso crudele e iniquo.
Se si è palesemente e sempre, nati e nate da una donna senza che questa sia visibile socialmente anche con il suo cognome qualcosa non torna.
Per oltre 30 anni movimenti e parlamentari hanno provato, in Italia, a mettere sul piatto questa realtà, che non è né risibile né inutile, come tutte le questioni simboliche, in questo caso un chiaro timbro di cultura arcaica e patriarcale.
Laura Cima, parlamentare dei Verdi e femminista, negli anni ’80 provò più volte a presentare proposte di legge per cambiare questo stato di cose; Iole Natoli da anni lotta, ora grazie anche al gruppo Facebook dedicato al cognome materno, per allargare la consapevolezza e il consenso di donne e uomini, e prima della sentenza della Corte Europea che condanna il nostro paese per avere rifiutato la richiesta di una coppia che chiedeva l’attribuzione del cognome materno nulla o poco si è smosso.
Mi sembra davvero significativo che il ricorso per discriminazione sia stato portato di fronte alla Corte Europea da parte di una coppia, Alessandra Cusan e Luigi Fazzo: un bell’esempio di collaborazione ed empatia tra donne e uomini per lottare contro la resistenza al cambiamento, di fronte ad una palese ingiustizia. Una buonissima notizia.